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Sonia

Arrivammo a Varsavia alle sei in punto di mattina, con un cielo dai colori splendidi per via dell'alba: il sole stava nascendo all'orizzonte. Un celeste chiaro si era mescolato al rosa e a un giallo pallido, sfumandosi in un connubio perfetto. La sfumatura che si originava dall'unione di quelle tonalità era così insolita... o forse lo era perché non avevo mai visto l'alba.

Sbadigliai, dimenticandomi di nascondere la bocca spalancata con la mano adagiata invece sul capo, affaticato per via di un forte male all'altezza delle tempie.
"Sonia, ma che modi sono questi?" venni subito rimproverata da mia madre, che in fatto di galateo non se ne perdeva una. Fu inutile spiegarle che mi ero appena svegliata da un sonnellino rigenerante e che risultava difficile anche per me mantenere un certo rigore appena aperti gli occhi.

"Tutte scuse. Se fosse un caso a sè andrebbe bene, ma è gia la seconda o terza volta" osò dirmi. Ma tanto, anche si fosse trattato di un evento singolare, avrebbe trovato il modo di riprendermi con altre mille scusanti.

Annoiata e persa a guardare fuori dal finestrino il nulla, sentii il pilota annunciare che l'atterraggio sarebbe avvenuto nell'arco di pochi minuti, ormai prossimi all'aeroporto polacco.

"Tutti i dispositivi elettronici dovranno essere spenti. Ricordiamo che è severamente vietato fumare a bordo dell'aeromobile. I passeggeri sono invitati a rimanere seduti al proprio posto e ad allacciare le cinture" scimmiottai la frase, aggrottando le sopracciglia.
"Sonia, cosa ti prende oggi? Quanta insolenza!" mi ammonì nuovamente la consorte di mio padre.
Sbuffando, mi placai, domandandomi se mi fosse permesso respirare. Ma non ebbi il tempo di riflettere che la sua voce parlò ancora.
"Sonia, spegni il lettore musicale" sentii ordinare dalla sua voce. Seduta alla mia sinistra, mia madre era scocciata non tanto dal fatto che fosse acceso, ma che lo stessi usando; lei odiava la musica.

Spalancai gli occhi e la guardai in malo modo. Poi, fingendo di non aver sentito, mi tolsi una cuffia dall'orecchio obbligandola a ripetere ciò che aveva appena sentenziato.
"Stiamo per arrivare, sbrigati!" aggiunse poi. Sbadigliai nuovamente, questa volta coprendo il mio cavo orale per evitare di ricevere un ceffone.
"Mi ascolti?!" mi riprese.
"Ma poi mi chiedo, a cosa ti serve quel coso?".
"Lo so. Ho sentito" tagliai corto evitando di proseguire il discorso. Non mi andava di dare spiegazioni inutili. Così, malvolentieri, estrassi anche l'altra cuffia. Le piegai con cura arrotolandole attorno al corpo del lettore musicale e inserii il tutto nella tasca anteriore dei pantaloni.

Una volta in aeroporto potei finalmente andare in bagno. Mia madre mi aveva costretta a bere quasi un litro d'acqua per evitare che andasse sprecata prima di fare il check-in.
"Sai quante persone muoiono di sete?" mi aveva detto per cercare di convincermi. La cosa che non comprendevo era il motivo per il quale fosse la prima a non farsi problemi a pronunciare frasi del genere, ma l'ultima a donare venti centesimi ad un mendicante per strada.

Con il ventre dolente e una grande difficoltà a muovere passi, riflettei. Erano ormai sei ore che non andavo in bagno, e come ogni comune mortale avevo l'urgente necessità di farci una capatina.

"Mamma, vado un attimo in bagno" annunciai allotanandomi da lei. Mua madre, intanto, stava (im)pazientemente attendendo che le valige venissero scaricate dall'aereomobile. Probabilmente non mi aveva neppure sentita. Ma l'ultima cosa che avrei avuto voglia di fare sarebbe stata quella di tornare indietro a ripeterglielo.
In fondo non era poi così importante. Nel giro di cinque minuti sarei tornata, cosa poteva succedere nel lasso di pochi istanti?

"Tesoro, dov'è andata? Non c'è" chiese alla propria consorte mia madre, guardandosi attorno (stranamente) preoccupata.
"Non lo so. Non era lì con te?" rispose con una domanda mio padre.
"Oh, cielo, ma dove potrà essere?".
"Ma chi?" cadde dalle nuvole lui, che probabilmente non aveva neppure compreso di cosa si stesse discutendo.

Entrambi iniziarono a cercarmi a vuoto per l'intero aeroporto, forse anche al suo esterno, lasciando perdere le valigie, che nel frattempo erano state scaricate sul rullo trasportatore, trainante decine e decine di borse quasi identiche alle nostre e che si riconoscevano forse solo per l'etichetta con scritto il nome del possessore.

Uscii dal bagno, con ancora le mani bagnate. Il phon era guasto e di scottex accanto ai lavandini non se ne presentò neppure l'ombra.
Avevo ancora un sorrisetto spensierato in volto dovuto a un avvenimento buffo accaduto poco prima in bagno: una signora, probabilmente sudamericana, non aveva capito come aprire il rubinetto dell'acqua e aveva chiesto aiuto nella sua lingua, lo spagnolo, su come fare, ma nessuno era riuscito a capirla. Espressioni in cagnesco si erano susseguite l'una all'altra sui volti delle decine di donne che avevano speso un paio di minuti della loro vita ad ascoltarla senza comprenderla. Fortunatamente la sottoscritta non faceva parte di quel gruppo di persone e riuscì a spiegarle il necessario, rendendosi (modestamente) utile. Due anni di spagnolo avevano dato i loro frutti.

Quando uscii non mi resi conto del fatto che i miei genitori non si trovavano lì. Ci misi non poco a capire che non fossero nei paraggi, nonostante le persone presenti fossero solo una ventina. Continuai a cercarli tra i visi, senza ritenerne alcuno familiare.
"No... e adesso dove vado?" pensai tra me e me, digrignando i denti nervosa. Era mai possibile che mi assentassi per cinque minuti ed entrambi fossero spariti?

Fortunatamente avevo un punto a mio favore: conoscevo il polacco. Mantenendo la calma in un aeroporto enorme e a me sconosciuto, iniziai a chiedere alle persone che incontravo se avessero visto le persone che descrivevo loro, ma purtroppo l'ausilio della lingua non poté risolvere il mio problema. Nessuno aveva visto niente.

Provai a far squillare il telefono di mio padre, ma era spento, così come quello di mia madre. Evidentemente non lo avevano più riacceso dopo essere scesi dall'aereo.
Un senso di panico invase la mia mente, così come un forte brivido percosse tutto il mio corpo.
Non c'era via di uscita. Io senza di loro non sarei potuta andare da nessuna parte. Fu dura ammetterlo, ma dovetti farlo per liberarmi di una parte del senso di colpa che provai nel pensare che, in minima parte, era anche causa mia: avrei dovuto sapere che era pur sempre mia madre, la persona a cui mi ero rivolta per dire che mi sarei allontanata. Non mi ascoltava di solito, non l'avrebbe fatto quella volta.

L'unica cosa da fare, che poteva dar luogo a una piccola speranza di ritrovarli, era rimanere ferma dove mi trovavo. Prima o poi, le valigie sarebbero dovuti tornare a prenderle.

"Caro, ma quella... quella è Sonia!" sentii pronunciare il mio nome alle mie spalle. Mi voltai a vedere chi fosse stato a chiamarmi.
Ecco comparire i miei, di un colorito simile a chi aveva appena visto un fantasma inseguirli per tutta la mezz'ora precedente.
"Sonia, dov'eri finita? Ti abbiamo cercata ovunque!" squittì mia madre gesticolando animatamente.
"Ero in bagno" dissi, con fare innocente.
"Meno male che sei qui". Mia madre era felice come se avesse rivisto una persona che non incontrava da mezzo secolo.
La cosa più straordinaria, che mi lasció letteralmente di stucco, fu la sua pacatezza nel dirmi che prima di allontanarmi avrei dovuto avvisare e assicurarmi che lei mi avesse sentita. Penso che qualsiasi altro genitore avrebbe quasi ucciso il proprio figlio per aver fatto una cosa del genere e per aver fatto impazzire i genitori a cercarlo in un luogo non proprio tra i più piccoli e tranquilli.
La loro reazione era stata strana: per i miei ogni occasione era buona per rimproverarmi, ma per quella volta non fu così. Diedi tutti i meriti all'orario: si era fatto tardi.

Prendemmo le nostre valigie, che ormai giravano solitarie sul rullo da quasi venti minuti e ci dirigemmo verso l'uscita.
Una volta fuori chiamammo un taxi.

"Non doveva venire a prenderci Tatiana, tua zia?" domandai.
"No. Alla fine non viene. Ha avuto un imprevisto" mi rispose mia madre.
"Perché, se non ci fosse stato "l'imprevisto", secondo te sarebbe venuta? Quale scemo si sveglia alle sei di un sabato mattina per andare a prendere in aeroporto tre parenti alla lontana di cui probabilmente ricorda il nome soltanto di uno di loro quando potrebbe dormire dopo una settimana di lavoro?" pensai.

Il taxi, però, fu un'alternativa sulla quale non ebbi nulla su cui ribattere. Era comodo, con una bella melodia di sottofondo ad accompagnarci a destinazione e fu anche piuttosto rapido.

Così, alle otto e un minuto di mattina arrivammo davanti al portone di casa. Non rimaneva che inserire la chiave nella fessura ed aprire la porta.Aspettavo quel momento da nove ore. In aeroporto avevo sognato di mettere piede a casa mia soltanto per dormire per il resto della giornata. E da quel momento avrei potuto farlo, sperando che la casa fosse accogliente.

La storia prima della storiaOnde as histórias ganham vida. Descobre agora