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Sonia

Ormai erano passati sei giorni dall'ultima volta in cui ero riuscita a contattare il mio ragazzo, giusto una breve telefonata di un paio di minuti. Daniel continuava a non farsi sentire. Non sapevo se preoccuparmi o essere arrabbiata con lui. Qualcosa poteva essere accadutogli o forse non aveva semplicemente tempo per stare dietro a me. Anche se, però, una decina di minuti per farsi sentire, di sicuro non gli avrebbero scombussolato la giornata. Notavo, con dispiacere, che su Whatsapp accedeva, tutti i giorni e più volte al giorno, ma non visualizzava mai subito i miei messaggi. Non sapevo se lo facesse di proposito, oppure se ci fosse qualcosa di allarmante sotto.
Attesi, e finalmente potei sentirlo, dopo quasi una settimana.

Ma prima...

Daniel

Quando i miei genitori tornarono a casa, erano stravolti. Lo si percepiva non tanto dalle parole che venivano fievolmente pronunciate, quanto dalle loro espressioni turbate.

Mi trovavo in camera, mezzo addormentato, quando fecero il loro ingresso. Sentii la porta aprirsi ed essere richiusa con violenza. Quella fu la causa del mio risveglio avvenuto di colpo. Saltai giù dal letto per andare incontro a mia madre e chiederle notizie di mia sorella. Raggiunsi l'ingresso, sbadigliando e sistemandomi come potevo i capelli con l'utilizzo delle dita, irrigiditesi sotto il peso della testa durante il momento di sonno.
Mia madre mi squadró dalla testa ai piedi.
Non indossavo la maglietta, ero in jeans, avevo i capelli tutt'altro che in ordine, gli occhi lucidi.
"Cosa succede? Perché sei conciato così?" mi domandó nell' immediato, indicandomi.
"Ho dormito, mamma" risposi, stiracchiandomi.
"Allora? Come sta Vanesa?" chiesi, prendendo dall'appendiabiti una maglia per coprirmi.
"Così così, Daniel". Sul loro volto si vedeva un grande senso di smarrimento e tristezza.
"Papà mi ha detto che ci sono state delle complicazioni".
"Sì, è vero. Cioè, più che altro è stata operata giusto in tempo. Ancora poco e sarebbe stato tardi" disse a bassa voce mio padre. Deglutii.
"Tardi per...per cosa?" chiesi, balbettando.
Mia madre mi guardò, sperando potessi aver capito al volo quella che sarebbe potuto essere la conseguenza.
"Mamma, non capisco" la esortai a parlare.
"Sarebbe potuta morire, per dio!" disse, con tono secco. Impallidii.
"Come?".
"Sì, se l'appendicite non viene curata in tempo causa problemi e può portare sino alla morte". I miei occhi si inumidirono più che in precedenza. Cercai di cambiare discorso, spaventato.
"Quando la dimetteranno?".
"Tra massimo una settimana". Mi morsi il labbro.
"Domani mattina andiamo a vedere come sta".
"Ti prego. Fai venire anche me" la supplicai.
"Dovresti saltare la scuola solo per vederla per cinque minuti?".
"Dai, per favore" insistetti.
"No, Daniel. Mi dispiace, andremo noi. E te la saluteremo, stai tranquillo". Abbassai la testa, deluso dalla risposta che mi aveva appena dato mia madre. Tornai in camera, a braccia conserte. Ogni aggiornamento che ricevevo su Vanesa mi faceva sentire sempre più improduttivo.

Qualche giorno dopo, esattamente cinque, Vanesa tornó a casa.
Erano parsi molti di più, in realtà. In sua assenza il tempo passava più lento, le giornate erano noiose. Non avevo nessuno di cui occuparmi, nessuno da poter aiutare nei compiti, nessuno da rimproverare per delle banali sciocchezze a cui alla fine finivo per intenerirmi e sorvolare. Eravamo abituati a passare tutto il nostro tempo, al di fuori delle ore di scuola, assieme.
Una volta che la ebbi davanti a me, davanti al portone dell'ingresso, fui talmente contento di vederla in carne ed ossa che quasi piansi dalla commozione.
Appena si sistemò, togliendosi le scarpe e appoggiandole sulla scarpiera, corsi ad abbracciarla. Lei mi squadrò dalla testa ai piedi, stupita dal mio gesto di cui era solitamente lei l'iniziatrice.

Ci accomodammo in camera mia, e non potei fare altro che sorriderle spesso. Ero così perso a contemplarla che mentre mi parlava di ciò che mangiava in ospedale non mi accorsi di averle permesso, in risposta ad una sua domanda, di adoperare il mio personalissimo computer gentilmente ragalatomi da mio padre e da lei invidiatissimo.
"Ti prego, non romperlo e limitati ad usare Word o Paint" la supplicai. Rise.
"Quanto sei materialista!" ebbe il coraggio di dirmi.
"Materialista io? Più generoso di così! Ti sto dimostrando proprio quanto tenga a te prestandotelo per qualche minuto".
Mi alzai per andarlo a prendere e mi sedetti per terra accanto a lei, sul tappeto.
"No, così facendo mi stai dimostrando quanto tu tenga al tuo computer".
"Mh, sì, può darsi" scherzai. Vidi ricevermi un cuscino sulla testa, che mi colpì con violenza.
"Hey, Veba! Sta' ferma!" dissi, rilanciandoglielo con delicatezza.
Amavo scherzare con lei, aveva sempre voglia di giocare.
Mi saltò addosso, tappandomi la bocca e coprendomi il viso con un peluche. Cercai di ribellarmi, manizió a farmi il solletico.
Ridevo. Ridevo come un pazzo. Dopo che scoprì il mio punto debole, all'altezza dei fianchi, per me fu come aver perso una battaglia segretissima.
Ad un certo punto sentii uno strano rumore, dato da un movimento brusco. Mi bloccai, alzandomi poi di scatto.
"Veba, cosa è stato?" le domandai sporgendomi verso il computer, che giaceva alle sue spalle.
"Oddio, cosa hai fatto!" glielo indicai, spalancando gli occhi.
Si girò di scatto, naturalmente verso il pc. Approfittai del suo momento di distrazione per ribellarmi e farle il solletico sui piedi a mia volta.
"Daniel, smettila!" urlò. Iniziò inevitabilmente a ridere.
"Non hai capito che ero io col piede?". Continuai a infastidire i suoi talloni.
"Mi hai imbrogliata, non vale!".
"Smetto solo se mi dai un bacio".
"Che schifo, no, non te lo do!".
"Non in bocca, scema. Cos'hai capito?". Continuai a torturarla.
"Un bacio, sorellina. Sulla guancia, da brava ragazza".
"No, non voglio!" fingeva di fare la dura.
"Un abbraccio?". Si tirò su di scatto. Smisi di farle il solletico.
Mi buttò le braccia al collo, sedendosi sulle mie gambe.
"Ti voglio bene".
"Lo dici solo per il computer" bofonchiai.
Mi lasciò il collo, guardandomi nelle pupille con i suoi occhi scuri.
"Se la pensi così, allora...".
"No, no. Dai, scherzavo" piegai il labbro inferiore verso il basso. La strinsi a me.
"Ti voglio bene anch'io" le sussurrai all'orecchio.
Si staccò da me dopo alcuni secondi.
"Hey, che fai?" domandai.
Andò a prendere il computer.
"Vorrei aprofittare di questo beneficio prima che mi venga sottratto". Risi.
"Già. Affrettati, tra pochi minuti potrei riprendermelo". Mi guardò spalancando la bocca.
"Ma come...".
"Sta' calma. Stavo scherzando. Piuttosto vieni vicino a me, che ti faccio vedere alcuni programmi".
Ci sedemmo l'uno accanto all'altra, alla scrivania, col pc davanti ai nostri occhi, io a illustrarle come usarlo, lei ad ascoltarmi e a mettere in pratica ciò che le stavo mostrando.

La storia prima della storiaWhere stories live. Discover now