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Daniel

Finalmente era arrivato il ventidue dicembre: Sonia sarebbe arrivata a Torino. Ancora pochissime ore e l' avrei potuta rivedere e riabbracciare.
Oramai era tantissimo tempo che aspettavo quel momento e non mi sembrava vero. Non mi pareva possibile che il tempo che ci separava si potesse quasi contare con soli minuti. A volte avevo come l'impulso di acquistare una clessidra e volermi fermare a osservare, concalma, ogni granellino cadere da un'estremità all'altra di essa e pensare che ciascuno di essi fosse un istante in meno della mia esistenza senza di Sonia.
A ogni particella di sabbia precipitata, la distanza temporale fra lei e me diminuiva.

Prima di realizzare quanto poco tempo mancasse, l'avevo sentita per l'ultima volta in mattinata prima che prendesse l'aereo, in maniera molto frettolosa. Due saluti, qualche complimento, un paio di battute e delle confessioni. In pochi minuti mi rassegnai all'idea che non avrei potuto parlarle per mezza giornata. Ma non si trattó di una mezza giornata qualsiasi:apevo che al terminare di quelle ore l'avrei potuta rivedere di persona. La distanza impediva di toccarmi fisicamente, ma non l'anima.

L'attesa fu qualcosa di ancora più pesante: aspettai con un'impazienza tale da vivere quel momento con un batticuore costante.
Una volta atterrata, mi disse, mi avrebbe chiamato. Non sapeva se i suoi le avrebbero permesso di venire a trovarmi. Forse sì, magari no.
Attesi trepidante la sua telefonata, che ricevetti nel primo pomeriggio. In realtà si trattó di un messaggio.

Ciao, Dane!
Sono a casa!
Se vuoi possiamo vederci per le quattro, a casa mia o anche fuori, per fare una passeggiata. Fammi sapere.
Un bacio.

Fui felicissimo di riceverlo, tanto da balzare giù dal divano. Rilessi velocemente il messaggio e mi sbrigai nel darle una risposta.
"Daniel, non usare il cellulare a tavola" mi rimproveró mia madre, tono severo, mentre piegava in due i tovaglioli di carta dal colore pallido, da affiancare alle posate. Lei e Vanesa erano, in quel momento, impegnate ad apparecchiare per il pranzo.
"Gradirei, piuttosto, ci dessi una mano" mi confessò, con un tono che richiese immediata collaborazione da parte mia.
"Mamma, non posso. È importante" troncai la conversazione, troppo concentrato su quello che avrei dovuto scrivere a Sonia.
"A chi stai scrivendo?" mi domandó lei, vedendomi impegnato a digitare frettolosamente sulla tastiera del telefono con i pollici, che si muovevano in una danza sfrenata.
"A Sonia. È appena tornata a Torino". Alzai lo sguardo verso mia madre.
"¡Oh, cariño, que bien! " esclamò. "Allora sei giustificato. Che bella cosa! Salutamela tanto". Sorrisi, soddisfatto. Sonia mia aveva salvata.
Potei cosí tornare a rivolgere il mio sguardo allo schermo.
"D'accordo".
Mia sorella impazzì dalla gioia. Quasi quanto me.

Ciao, amore.
Che bella notizia mi dai!
Sono contentissimo. Sono impaziente di vederti. Per le quattro andrebbe benissimo. Se per te va bene possiamo vederci fuori. Dimmi tu.
Ti amo.

le scrissi.
Inviai il messaggio dopo averlo riletto almeno tre volte. Per l'agitazione pensai di aver fatto un numero eccessivo di errori di battitura.

Contai i minuti che mancavano alle quattro giá subito dopo pranzo, quando mia madre mi costinse, per lo meno, a sparecchiare.
Poi cercai di distrarmi pensando a come mi sarei dovuto vestire, cosa avrei dovuto dire. Oh, e rammentarmi di portarle il regalo che le avevo preso per Natale. Non sapevo se l'avrei vista, il venticinque, e portarglielo in ritardo mi pareva un gesto di poco buon gusto.

Uscii di casa poco prima delle tre. Per arrivare nel nostro punto d'incontro non ci sarebbe voluto più un quarto d'ora, ma volevo fare una passeggiata per rilassarmi. Camminare mi aiutava a calmare l'agitazione causata dalla troppa voglia di vederla. E poi si prospettava una giornata insolita, particolarmente piacevole, mite e soleggiata.

Mi incamminai verso la mia ex scuola elementare. Lí vicino sorgeva un parco molto grande e mi piaceva frequentarlo. Era sempre pieno di bambini schiamazzanti sulle altalene, di ragazzi sfreccianti sulle loro biciclette... Ogni tanto, qualche anziano lasciava che l'etá media dei frequentatori del parco salisse drasticamente. Seduti sulle panchine di legno, poste fra un cipresso e l'altro, leggevano il giornale godendosi qualche timido raggio di sole invernale.

Era un posto tranquillo e mi ricordava l' infanzia trascorsa con mia sorella, i miei amici e mio zio tra le costruzioni ora lievemente arrugginite per via della mancata manutenzione. Le pertiche e le altalene, dipinte di giallo, avevano lasciato che il tempo portasse a coprirle di ruggine, in contrasto con la vernice luminosa con cui erano state rivestite. Il cavallo a dondolo, da sempre il preferito di ogni bambino che mettesse piede in quello che, fino a circa cinque anni prima per me era stato un posto magico, si era guastato, smettendo di molleggiare. Ma nonostante quei piccoli difetti, restava comunque un luogo a me caro e meraviglioso, dove costruii la mia prima e spensierata infanzia.

I miei ricordi, intensi e vivi, riuscirono a tradire ció che i miei occhi vedevano: qualche giostra che rammentavo perfettamente era stata rimossa. Sarebbe stato bello poter tornare indietro nel tempo e rendere immortali quegli attimi in cui, con le mani strette alle catene di un'altalena, lasciavo che il mio corpo ondeggiasse avanti ed indietro, mosso dal vento che mi faceva cavalcare sempre più in alto, sempre più vicino al firmamento.

Amavo camminare per i sentieri sabbiosi e sottili che dividevano le spaziose aree verdi del parco.Mentre passeggiavo mi guardavo con attenzione attorno, scrutando minuziosamente ogni particolare: un fiore che sbocciava nel freddo sui rami di qualche pianta, gli alberi che avevano ormai perso tutte le foglie, il chiosco di Mauro, appostato sempre lì, accanto al turet del parco, che vendeva gelati d'estate e cioccolate calde d'inverno.

Mi misi in pratica nel tentare di scorgere facce nuove, qualcuno che non avessi mai visto prima in quel parco. Ma risultava una cosa piuttosto difficile: conoscevo tutti e tutti conoscevano me, attivo frequentatore di quel posto. Solo i bimbi della nuova generazione mi erano nuovi. Non lo erano invece i loro genitori che, in molti casi, erano anche quelli dei miei ex compagni di scuola.

Mentre mi apprestavo ad uscire dal giardino per dirigermi verso la mia meta sentii, da dietro le spalle, dei ragazzi venire verso di me correndo rapidamente sull'asfalto cinereo. Mi girai e vidi che fossero in due. Uno di loro, il biondo, si era messo ad inseguire l'altro, a qualche metro dietro di me.
Non ci feci molto caso e ripresi a camminare, non prima di aver fatto spallucce.
"Okay" pronunciai a bassa voce, aspettando il momento in cui il primo mi superasse.

Ad un certo punto sentii urlare poco dietro di me e vidi un'ombra nera, umana, venire verso di me. Infine, un forte dolore alla spalla. Ero stato colpito dal ragazzo castano, che mi era venuto addosso correndo. Forse per scrutare a che punto si trovasse il suo inseguitore aveva smesso di guardare davanti a sè cessando di vedere dove stesse andando.
Barcollai.

"Ti prego, scusa, scusa. Non volevo!" disse lui, mettendo le mani davanti a sè, in mia direzione, corricchiando davanti alla mia persona all'indietro. Poi si voltó e proseguì nella sua folle corsa.

Il ragazzo biondo, rimasto nettamente indietro, mi superò poco dopo e alla fine riuscii a raggiungere la sua vittima nonostante questa avesse fatto del suo meglio per riuscire a sfuggirgli.

Assistetti ad una scena poco piacevole:
alzó le mani verso l'altro e il secondo non fece nulla per bloccarlo. Prima lo spinse, poi gli tirò un ceffone.
"Dimmi, che cazzo ci facevi lì? Non voglio mai più vederti sotto casa sua. Sia chiaro".
"Ma che vuoi, tu, dalla mia vita?".
"Voglio che tu gli stia alla larga!".
"Perché? Sono il suo ragazzo!".
"Il suo ragazzo? Adesso ti ammazzo! Vedi come finisci di fare il coglione".

Deciso ad intervenire, non appena mossi un passo verso di loro il biondo si mise a correre verso l'uscita del parco, senza fermarsi.
Raggiunsi l'altro ragazzo, a una ventina di metri da me.

"Hey, è tutto okay?" domandai. Lui si trovava di spalle rispetto a me.
Si voltò. Lo vidi impallidire. Aveva la bocca spalancata, il respiro affannato, dei graffi sul viso ormai macchiato di sangue. Qualche goccia di sudore si era formata sulla sua fronte, rendendola lucida.
Ripetei la domanda. Finalmente ebbi una risposta.
"Uhm... s-si, grazie" balbettò.
"Sei sicuro?" insistetti.
"Sì. Adesso devo andare, peró. Ciao". Fece per voltarsi.
"Aspetta" dissi, bloccando il suo movimento e prendendolo per un braccio.
Lui si voltó verso di me. I nostri sguardi si incrociarono.
"Io... io ti conosco!" dissi, frettolosamemte.
"N-no. Noi non ci siamo mai visti".
"Come no! Tu... tu sei Andrea!".

La storia prima della storiaWhere stories live. Discover now