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Daniel

"No, ti sbagli. Non sono io" mi rispose, abbassando lo sguardo. Gli occhi sono lo specchio dell'anima ed ero certo che volesse nascondere qualcosa di sè che solo attraverso le sue pupille avrebbe inconsciamente trasmesso.

"Sì, tu sei Andrea!" insistetti. Analizzai bene il suo volto, i suoi lineamenti. I suoi occhi verdi. Nonostante li avessi incontrati solo per una frazione di secondo, il loro colore mi aveva immediatamente colpito.
Non ricordavo molto di Andrea. Lo avevo visto una sola volta, per di più erano passate quasi tre settimane e non mi ero concentrato particolarmente sul suo viso. Però c'era qualcosa che mi aveva fatto pensare si trattasse proprio di lui: il colore delle iridi.

"Non può essere. Ti starai confondendo. Io mi chiamo Fernando". Accennò un mezzo sorriso, le labbra sporche di sangue.
Lasciai il suo braccio.
"Se lo dici tu" dissi, tendendogli una mano. La strinse, nervoso.
"Sei ferito, hai un livido e dei graffi" dissi, guardandolo.
"Non fa nulla. Ora vado" rispose.
"Non è meglio se vai al pronto soccorso? Stai sanguinando, qua hai un taglio profondo..." dissi, preoccupato, indicandoglielo, senza peró toccarlo.
Lui si sfioró con un dito, sporcandosi di sangue. Gli porsi un fazzoletto estraendolo dalla confezione che tenevo nella tasca dei jeans.
"Tieni" dissi, porgendoglielo. Le nostre dita si sfiorarono appena.
"No, figurati. Adesso vado a casa e mi medico". Sembrava un ragazzo piuttosto riservato.
Abbassai lo sguardo, osservando le sue dita affusolate premere la ferita.

"Quello di prima era un tuo amico?" domandai.
"No, no. Non siamo amici" disse scuotendo il capo.
"Che bastardo, dovresti denunciarlo". Mi guardò negli occhi, ma io non lo stavo osservando.
"Non avrei dovuto parlare".
"Non fa nulla".

Non capivo cosa volesse fare. Rimaneva lì di fronte a me, senza andarsene. Forse si aspettava facessi qualcosa, o gli chiedessi qualcosa.
"Ma lo conosci, almeno?". A quella domanda, abbassò lo sguardo di nuovo.
"S-sí. Lo conosco".
Lo vidi stringere i denti, trattenersi dal piangere. Le sue labbra carnose erano ferite. Si strofinò, poi, gli occhi con il dorso di una mano.

"Sei sicuro di stare bene?" chiesi, preoccupato.
"Hai bisogno di qualcosa?".
Aveva il viso stravolto, pieno di graffi e lividi, un labbro spaccato. Del sangue si era coagulato vicino a una narice e gli occhi erano diventati in poco tempo rossi.

Mi stavo realmente preoccupando, nel vederlo cosí.
Fece per andarsene, di passo svelto. Lo guardai allontanarsi, ma decisi di fermarlo, per la seconda volta. Non potevo lasciarlo andare via in quelle condizioni.
Gli corsi appresso e gli toccai un braccio.
Lui si giró e fece una cosa inaspettata: respirò affannoso fra le lacrime, poi mi osservò per qualche secondo. Infine, mi abbracció.
Le sue braccia cingevano il mio collo, la sua guancia sfiorava il mio orecchio.
Non seppi che fare in quel momento: dargli uno strattone e levarmi, essendo lui pur sempre uno sconosciuto per me, stringerlo e comprendere la sua reazione, forse dovuta ad un momento di profonda disperazione o rimanere così com'ero, mostrando indifferenza.
Alla fine mi venne spontaneo cingere una mano sulla sua schiena e appoggiare il mento sulla sua spalla.

Lo sentii singhiozzare e stringere la mia giacca fra le dita. Aspettai fosse lui a separarsi da me.
"Perdonami., non avrei dovuto" si scusò, allontanandosi da me dopo qualche secondo.
"Sono stato un idiota".
"Non fa nulla. Adesso come stai?" domandai, guardandolo. Era identico ad Andrea del quale avevo memoria nonostante il tempo trascorso dal nostro primo e ultimo incontro in palestra.
"Un po' meglio, grazie". Sorrise. Aveva un bellissimo sorriso, con denti candidi e una piccola fessura tra i due incisivi.

Sentii squillare un telefono. Era il mio. Lo presi, estraendolo dalla tasca dei pantaloni. Guardai lo schermo.
Era Sonia.
"Scusa, devo rispondere" dissi, frettolosamente. Mi sorrise, lievemente, comprendendo la situazione. Voltò lateralmente il capo, che mise in evidenza la mandibola, lievemente squadrata. I suoi lineamenti erano ancora morbidi.

La prima cosa che il mio interlocutore mi chiese fu dove mi trovassi, con tono agitato. Non accennò nemmeno un saluto.
Le risposi dicendole la verità.
"Ma sono le quattro meno un quarto, Daniel. Non ce la farai mai a raggiungermi in tempo. Ti ci vorrá come minimo una ventina di minuti e ti dovrò aspettare!" fui rimproverato dalla mia ragazza.

Aveva ragione, non ci vedevamo da un sacco, lei faceva i salti mortali per potermi vedere in giornata e io mi permettevo anche di arrivare in ritardo. Mi scusai, dicendole che avrei fatto il più in fretta possibile.
Chiusi la chiamata, deglutendo con nervosismo.

"Perdonami. Era la mia ragazza" dissi.
"Devo scappare".
"D'accordo. Anche io".
"Scusami per non esserti stato utile" dissi realmente dispiaciuto.
"Non preoccuparti. Vai, che di sicuro ti starà aspettando".
"Grazie. Buona fortuna per tutto".
"Anche a te". Gli strinsi una mano.
"E denuncia quello stronzo" dissi, incamminandomi.

Mi misi a correre in fretta per raggiungere Sonia, passando per ben tre volte col semaforo rosso durante la mia corsa tra le trafficate vie torinesi. Attraversai prima il corso, poi superai la rotonda. Infine arrivai in piazza, dove avevamo deciso di vederci.
Ma nonostante l'unica cosa che avrei dovuto fare sarebbe stata quella di pensare al mio appuntamento, il viso di quel ragazzo continuava a balenarmi prepotentemente in mente.

Arrivai a destinazione col fiatone e un forte male alla gola, il tutto unito a un intenso dolore alle gambe e un alone di calore che invadeva, persistente, il mio corpo sotto il giubbotto pesante.

Immobile nella piazza, circondato da centinaia di persone, aprii la bocca per respirare meglio. Poi scorsi con la vista l'intera piazza. Ecco in fondo a essa Sonia: girata di spalle accanto ad una panchina, percorreva il marciapiede su e giú. Forse lei non mi aveva notato.

Indossava un bel cappotto grigio e degli stivaletti.
La raggiunsi, cercando di accelerare il poco tempo che ci avrebbe separato.

Una volta dietro di lei, non mi feci notare e appoggiai delicatamente i palmi delle mani sui suoi occhi e chiesi :"Chi sono?". La sua voce si fece udire dopo un sospiro di gioia. Sentii la pelle del suo viso tirarsi a causa del sorriso che si era fatto spazio sulle sue labbra rosee.
"Daniel". Tolsi le mani dai suoi occhi, sorridendo spontaneamente.
Lei si girò.
"Ciao, Dane". Mi abbracciò, baciandomi sulla guancia.
"Hey. Quanto mi sei mancata". Cercai le sue labbra, che sfiorai con delicatezza con le mie.
"Questo è per te". Le porsi il suo regalo di Natale.
"Spero ti piaccia".
"Oh, ma Dane! Adesso me lo dai? Io il mio l'ho lasciato a casa! Che figura...". Si mise una mano sulla bocca.
"Ti dispiace se te lo porto il giorno di Natale?".
"Amore, non ha importanza. Io pensavo che non ci saremmo visti, a Natale. Per questo te l'ho voluto portare in anticipo". Sorrise.
"Ma certo che possiamo vederci! E con chi pensi che passi le feste, se non con te?".
"Con i parenti?". Rise.
"Be', certo. Ma anche tu sei un parente".
"Come?".
"No, be'... ma sei mio marito!". Risi.
"Mi fai sentire vecchio" confessai, sorridendole.

Ci incamminammo verso il mercatino di Natale che avevano organizzato in piazza, chiacchierando per tutto il tempo.
Le cose da dirci erano talmente tante che non sarebbe bastata una giornata intera per dircele tutte.

La storia prima della storiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora