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Daniel

F

ui mortiticato per il modo in cui avevo trattato Tommaso. Tornando a casa non potei fare altro che pensare a come mi fossi comportato. Non era mai stato da me fare supposizioni o covare rancore, ma avevo avvertito parecchio la lontananza di Tommaso, nell'ultimo periodo.
Mi dispiacque che l'uscita non andò a buon fine, ma non ci fu modo di trattenere il mio amico.
Rimasto da solo su quel marciapiede, sentii come se tutte le persone attorno a me mi stessero osservando. In realtà, era solo la consapevolezza di aver detto qualcosa che mi aveva messo in soggezione facendomi vergognare.

Le nuvole quella sera erano minacciose. Il cielo era squarciato in più punti da lampi chiari e luminosi, mentre l'aria fresca prennunciava scrosci di pioggia. Tornai a casa appena in tempo, e approfittai del senso di stanchezza per andare a dormire presto.

In mattinata, la prima cosa a cui mi dedicai dopo un'abbondante colazione fu chiamare Sonia. Non ero riuscito a sentirla il giorno prima. Non si era fatta viva nemmeno dopo le mie telefonate
Quando io le telefonavo, lei non rispondeva. Quando invece era lei a cercarmi, io non c'ero.
Non riuscivamo mai a trovare un istante in cui tutti e due fossimo disposti a dedicare del tempo a parlarci.
Alla fine, in qualche maniera, riuscimmo a metterci d'accordo.
"Chiamami alle dieci, domani" le scrissi, appena ebbi ricevuto la notifica della sua (ennesima) chiamata persa, la sera precedente.

"Ciao, Sonia!" esclamai appena la vidi apparire sullo schermo del mio cellulare. Aveva risposto alla mia videochiamata come prestabilito.
"Ciao, Daniel" mi salutò pronunciando con freddezza il mio nome.
"Perché mi chiami così?".
"Come dovrei chiamarti?" chiese lei.
"Dane. No?".
"Perchè? Tu mica mi chiami Soni". La guardai, riflettendo prima di parlare.
"Ma è diverso! Io non ti chiamo mai così. Tu mi chiami sempre con il diminutivo Dane. Mai con il nome per intero".
"Beh, abituatici". Fece spallucce. Il suo sguardo serio penetrò nei miei occhi.
"Come?" domandai, certo di non aver capito bene.
"Sì".
"Aspetta, prima di tutto vorrei sapere perchè sei arrabbiata".
"Eh? Figurati! Mica lo sono. Perchè dovrei? Sono solo otto giorni che non ci sentiamo, nonostante tu il cellulare lo utilizzi. Cosa vuoi che abbia? Non sono di certo offesa!" rispose con tono sarcasticamente infastidito.
"Ma guarda che non l'ho proprio usato. Accedevo a Whatsapp ogni tanto per sentire i miei genitori".
"Come no".
"Perché non mi credi?".
"Perché avresti potuto scrivermi un messaggio" si lamentò.
"L'ho fatto, qualche giorno fa. Poi ti ripeto che accedevo solo per sentire i miei. Non avevo il tempo di stare a chattare". Alzò gli occhi al cielo.
"È la verità. Erano in ospedale con mia sorella. È stata operata di appendicite acuta".
"Davvero?" chiese, stupita. Il tono della sua voce perse acidità, acquistando dolcezza.
"Certo. Non racconto menzogne" affermai.
"E come sta?".
"Bene, adesso".
"Salutamela".
"Certo. Te la passerei, ma è andata a farsi mettere altri punti dal medico".
"Capisco". Accennai un sorriso.
"Come stai?" le chiesi.
"Così così" disse, apaticamente.
"Tu?".
"Anche" pronunciai, per solidarietà.
"Come mai?" domandai.
"Mia madre è sempre nervosa, ultimamente. E questo influenza il mio umore".
"Sarà perché è avanti con la gravidanza ed è stanca".
"Già".
"A che mese è, ora?".
"Settimo".
"Oh, cavolo". Sorrisi.
"Ed è solo per quello?".
"No, anche perché mi sei mancato un casino. E quindi quando non ti sento non sto bene ".
"Anche tu" dissi, sorridendo.
"Sembra proprio che di me non t'importi" ricominciò, incrociando le braccia.
"Non è così, Sonia. Assolutamente".
"Ci sentiamo poco. E tu...tu sei strano".
"Io strano? Parla per te".
"Cosa intendi? Che sono strana perché ti cerco?" ironizzò.
"No. Lo sei perché sei troppo possessiva".
"Cosa, scusa? Non sono possessiva. Tu sei il mio ragazzo. E vorrei ci sentissimo più spesso".
"Pretendi che noi ci sentiamo" precisai. Spalancò la bocca.
"E cosa dovrei fare, allora, se non posso pretendere di sentirti? Fare finta di non essere interessata come fai tu?".
"Non sto capendo un tubo. Non ti seguo più. Ci stiamo perdendo in discorsi inutili, superflui, che non servono a nulla. Sappiamo entrambi che è difficile sentirsi. Ma nonostante ciò, entrambi facciamo il meglio per mantenere un meraviglioso rapporto. Se poi capitano degli imprevisti come è successo una volta a te, una volta a me, bisogna passarci su. Non sei d'accordo?".
"Non tanto". Rimasi allibito.
"Come no?".
"No, perché capitano sempre a te".
"Per forza. Tu non vai al liceo. Non hai una marea di cose da studiare. Tu non hai una sorella, per cui non hai altri impegni. E oltretutto la cosa dell'appendicite non dovresti nemmeno prenderla in considerazione".
"Infatti quella non la prendo in considerazione".
"E su cosa ti basi?".
"Dai, Daniel. Basta, non sono dell'umore giusto".
"Vedo" dissi.
"Facciamo una cosa, va. Sentiamoci quando avrai soppresso quest'acidità insopportabile".
"Sempre se ti ricordi di chiamarmi, prima o poi".
"No, no. Non hai capito. Io non ti richiamerò. Se ti interessa parlare con me, sai dove trovarmi. Io ci sono sempre. L'importante è che cambi atteggiamento, perché se dobbiamo litigare di nuovo, allora meglio non sentirsi proprio". La rimproverai, serio.
"Ciao, Daniel".
"Ciao, Sonia". Attaccó la chiamata, bruscamente.
Rimasi con il telefono in mano, osservando la schermata scurirsi. Ero scioccato. Mai avrei creduto che Sonia avesse un lato così. E che per di più, avesse avuto il coraggio di mostrarmelo. Di mostrarlo proprio a me, che con lei ero sempre comprensivo.

"Robe da pazzi" , pensai, incastrando le dita fra i capelli e spettinandoli.
Mi aveva trattato come uno zerbino.
Non ne capivo il motivo, anche se in fondo, non ce n'era seriamente uno valido.
Non era mai capitato che si innervosisse così. Secondo me c'era dell'altro sotto, ma forse non aveva voluto parlarmene vedendo che non le stavo dando ragione. Di solito le davo sempre retta, ma quando ritenevo fosse troppo, cercavo di frenarla. Sonia non era una persona impulsiva o lunatica. Però quella volta era stata veramente volubile.
Era vero che molte volte non rispondessi alle sue chiamate. Però non lo facevo con cattiveria, né perché non m'importasse di lei. L'unica cosa era che lei aveva molto piu tempo libero di me. Aveva, nel vero senso della frase, tempo da vendere.
Inizialmente era riuscita a sopportare questa cosa. Era sempre molto comprensiva e generosa con me. Però effettivamente, dopo un po', era ovvio che se la sarebbe presa.

Riflettei. Alla fine intesi che la colpa era anche un po' mia. Lei si impegnava al massimo per sentirmi. E il suo desiderio era solo quello, come ovviamente anche il mio.
Non era totalmente sua, la colpa della sua reazione.
E nemmeno completamente mia.
Avevamo sbagliato entrambi.
Ma era giusto non sentirsi per un paio di giorni per chiarirsi le idee.

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