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Sonia

"Sonia!". Il mio nome rimbombò per tutta la casa. La voce pungente di mia madre mi richiamò sull'attenti. Il tono risultò piuttosto infastidito.

"Sí?" domandai chiaramente scossa. Con le sopracciglia sollevate e le labbra stese in un sorriso nervoso, mi avvicinai alla sua persona che, in piedi alle spalle della porta dell'ingresso, sembrava non aver atteso altro che il mio ingresso.

"Ti avevo detto a che ora tornare" toccò immediatamente il tasto dolente, presentandosi di fronte a me. La sua fronte aggrottata evidenziava il suo nervosismo, accentuato dalla posizione rigida in cui si ergeva. Alta come me, sembrò sovrastarmi per quanto io mi fossi fatta piccola.

"Lo so. Ma sai che..." presi tempo. Quale scusa potevo inventare? Non quella dell'autobus in ritardo, visto che lei sapeva fossi andata a piedi. E le lamentele sarebbero pure ricadute non solo sul ritardo, ma anche sul fatto che avrei rischiato di far arrivare a casa una bella multa da pagare.

"Cosa?" mi esortò a parlare. Era chiaro stessi prendendo tempo per trovare una scusa convincente.
"La madre di Vanesa stava preparando qualcosa da mangiare, ma non aveva un ingrediente. Cosí è uscita di casa. Quando è tornata era tardi. Così... ho perso la cognizione del tem...". Mia madre mi stoppò.
"Ah, quella donna. Ma dove vive?" disse, sollevando gli occhi chiari al cielo.

Mi aveva creduto. Mi dispiaceva un sacco aver dato la colpa a María Inés, ma sapevo quanto poco mia madre la sopportasse. Bastava ci fosse lei, in mezzo, e la colpa non sarebbe in nessun caso ricaduta su di me. Tanto, cosa avrebbe potuto fare contro di lei?

"Dammi il numero di quella signora. Ora le dico che non si è comportata affatto bene nei tuoi confronti. Sa, questa persona, che stiamo partendo e non possiamo permetterci di perdere tempo per le sue dimenticanze?!" domandò mia madre evidentemente alterata.
"No, non è il caso tu la chiami" dissi.
"Si è già scusata abbondantemente con me" cercai di convincerla a lasciar correre, e così fece. Per fortuna un lieve odore di bruciato proveniente dal bagno (era il ferro da stiro acceso) fu l'unica preoccupazione di mia madre, che si mosse per spegnerlo.
"Speriamo che la camicia di tuo padre non si sia bruciata!" la sentii dire, la voce tremante, i passi rapidi arrestatisi in prossimità del ferro. Le piastrelle del corridoio, dalla pallida tonalitá cappuccino, si erano inumidite per via del sudore delle piante dei suoi piedi. A luglio faceva caldo per tutti.

Ormai superata la sgridata, mi chiusi in camera, iniziando a fare un lungo elenco delle cose che avevo portato con me. Un po' per verificare che tutto fosse stato inserito in valigia, un po' per passare il tempo. Nell'arco di solo un'ora e mezza saremmo partiti e ogni ripensamento sarebbe stato inutile.
Non potevo credere che in così poco tempo quelle quattro mura non sarebbero più state abitate per chissà quante settimane.

Alle nove meno un quarto, seduta sul divano in soggiorno, attendevo trepidante il triste momento in cui avrei varcato la soglia di casa. Mia madre, intenta a truccarsi e mio padre, impegnato a verificare che i contatori o chissà quali apparecchi elettrici fossero stati spenti correttamente, stavano tardando. E menomale che la colpa era ricaduta sulla sottoscritta...

"Possiamo andare" annunciò mio padre, affiancato da mia madre che, osservandomi, mi invitò ad alzarmi dal divano per raggiungerli. Afferrando la mia valigia e una piccola borsetta in cui avevo riposto il telefono e qualche moneta, deglutii. Due passi. Ed eccomi fuori di casa.

Dopo due rampe di scale e tre porte chiuse alle spalle, mi ritrovai in auto con ancora il cielo chiaro fuori, (non) pronta ad avventurarmi in un viaggio di circa due ore che mi avrebbe portata verso Milano, cittá che nonostante non fosse distante dalla mia Torino non avevo mai avuto modo di visitare.

La storia prima della storiaWhere stories live. Discover now