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Primo luglio duemilaquattordici. Il giorno della partenza era arrivato.

Sonia

Al mattino, reduce da una nottata terrificante, mi svegliai alle sette agitata come non mai. Avevo dormito sì e no cinque ore, nonostante fossi andata a letto poco dopo al tramonto, verso le dieci, il giorno prima. Purtroppo, però, non avevo preso sonno fino alle due. Un senso di ansia e malinconia avevano deciso di appropriarsi della mia mente, tormentandola e impedendole di concedermi del riposo. Una volta alzatami dal letto, saltai perfino la colazione, per me da sempre il pasto più importante.
Era possibile aver fatto così tanti incubi in una notte soltanto? Avevo perso il conto. Mostri e cattivi dei cartoni si erano alternati a esseri che solo menti con una fantasia fuori dal comune avrebbero potuto delineare.

"Che c'è che non va?" chiese mio padre col solito poco garbo. Con la bocca occupata in uno sbadiglio, attesi un istante prima di rispondere alla sua domanda. Ma fu proprio mentre riflettevo al riguardo che cambiai idea e finii per non rispondere proprio. Tanto a lui non era mai importato di sapere come stessi.
Vedendomi indossare un paio di calze antiscivolo e una felpa con una mite temperatura di ventisette gradi, continuò a fissarmi con insistenza.

"Allora?". In un primo momento non riuscii a capire a cosa fosse riferita la sua domanda. La compresi soltanto quando un alone di calore iniziò ad invadere lo spazio presente tra il tessuto di cotone e la mia pelle.
"Sì, sì, tutto a posto" risposi levandomela di dosso e buttandola in malo modo sul bordo della mia sedia in cucina. Mi sentivo a disagio con la sua presenza. Per quale ragione mi aveva atteso davanti alla porta di camera mia? Poi ero io ad avere tendenze fuori dal comune. A volte i suoi atteggiamenti ossessivo compulsivi mi trasmettevano ansia.

Mi diressi barcollando verso il frigo, spalancandone l'anta, sbadigliando ancora, assonnata.
"Il latte non c'è. È finito e dato che oggi partiamo, abbiamo pensato di non ricomprarlo per evitare di buttarlo via". La voce di mia madre, sdraiata sul divano in soggiorno, echeggiò fastidiosamente.
"Tanto stavo prendendo l'acqua" dissi, e poco dopo la consorte di mio padre sopraggiunse per vedere cosa stessi combinando.
"Cosa stai facendo?". Anche lei, comunque, non scherzava con le sue manie di controllo nei miei confronti.

Detto ciò, aprii una bottiglia di acqua da un litro e ne svuotai quasi la metà all'interno di una tazza. Per i miei genitori, entrambi sopraggiunti come cani al richiamo di un fischio, fu impossibile non guardarmi torvamente.
"Che c'è? Avevo sete" risposi, sentendomi osservata. Richiusi la bottiglia riponendola nuovamente nel frigorifero e dirigendomi verso il bagno.
"Hai la febbre?" mi sentii domandare. Non risposi, proseguendo il mio cammino verso il bagno, con la tazza di acqua che avrei bevuto in camera da letto.

Svitai di mezzo giro la manopola dell'acqua fredda e infilai sotto il getto corrente le mani. Dovevo riprendere il controllo di me. Avevo ancora il batticuore per la nottata trascorsa.

Sospirai, chiudendo gli occhi. Mi lavai il viso, lasciando che l'acqua gelida frizzasse sulla mia pelle.
Un altro giorno era cominciato, ma quello sarebbe stato diverso. Sarebbe stato l'ultimo a Torino.
Dopo quello avrei iniziato una nuova vita, probabilmente con le medesime azioni e impegni quotidiani; solo in luoghi e orari diversi. La cosa non mi entusiasmava. Ero sempre stata piuttosto abitudinaria: non amavo i grandi cambiamenti, soprattutto se erano causa di sconvolgimenti a cui avrei faticato ad abituarmi. Preferivo che le cose rimanessero com'erano e se proprio dovevano cambiare, meglio se in modo impercettibile.

"Mamma, devo parlarti" esordii uscendo dal bagno dove, mentre mi asciugavo le mani, riflettei riguardo a una cosa che assolutamente avrei dovuto fare al più presto, in giornata.
Mia madre era seduta sulla poltrona in salotto a leggere una rivista di moda, con le gambe accavallate e dei bigodini tra i capelli.
"Dovrei andare a salutare Daniel e Vanesa, oggi pomeriggio".
"Tesoro, avevi promesso di aiutarmi nelle ultime faccende domestiche!" disse lei, quasi sconvolta da ciò che le avevo appena annunciato. Ogni promessa che mantenevo dovevo rispettarla. Altrimenti, in caso contrario, ci avrebbero pensato i sensi di colpa a farmi cambiare idea. Le sue minacce erano le peggiori, così come le sue scenate da madre scioccata e depressa. Ma sarei piuttosto scappata di casa pur di non rimanere lì. La mia non era una dichiarazione a scopo interrogativo. L'avrei piuttosto definito informativo.

"Ti avrei aiutata, ma pensa che per me, questo, è l'ultimo giorno a Torino".
"Non sei andata tre giorni fa a casa della tua amica?".
"Sì, è vero. Ma poi non la rivedrò più per almeno quattro mesi. Ti supplico, lasciami andare. Starò poco, solo un'ora".
"Ci andrai. Ma prima voglio che tu mi dia una mano".
"Papá non c'è?" cercai di trovare qualcuno che potesse sostituirmi nel darle l'aiuto che cercava.
"Vorrei che fossi tu, ad aiutarmi. Vorrei che imparassi a responsabilizzarti e questa è l'occasione".
"Quanto ci vorrà?" chiesi.
"Dipende da te. Se ci metterai impegno, un paio d'ore".
"Due ore?" domandai Sollevando le sopracciglia.
"Forse anche di più. Ci sono molte cose da fare, lo sai".
"Lo so" pensai.
"Forza, ti conviene iniziare adesso".

Non mi diedi per vinta, mi rimboccai le maniche e cominciai immediatamente con il pulire i pavimenti. Poi mi sarebbe toccato raccogliere i panni stesi fuori, buttare la spazzatura, portare le valigie in garage e molto altro ancora.
Ma quello che mi aspettava dopo era ciò di cui più mi importava e, per ottenerla, sarei stata disposta a fare qualsiasi cosa.
Senza Vanesa e soprattutto Daniel, non sarei partita con serenità.
Un suo ultimo bacio, un ultimo "Ti amo", unito a un loro abbraccio, erano le cose che mi avrebbero permesso di lasciare Torino con la mente svuotata dalle preoccupazioni e con l'idea che qualcuno, a ricordarmi, ci fosse ancora.

La storia prima della storiaWhere stories live. Discover now