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Poco prima...

Sonia

Non potevo ancora crederci.
Le scritte in italiano erano ovunque: cartelli stradali, cartelloni pubblicitari, insegne mi permisero di constatare che la nostra auto stava viaggiando in territorio italiano. Il clima piú mite, i palazzi alti, la presenza dei controviali... Torino. Ero arrivata a casa.
Avevo le lacrime agli occhi dalla gioia. Dopo un estenuante viaggio fra taxi, aereo e auto, non vedevo l'ora di mettere piede a casa. Ma giá solo sapere di trovarmi nella mia città natale mi riempiva il cuore di contentezza.

Ogni strada percorsa mi avvicinava sempre di più alla mia dimora che, distante una trentina di chilometri dall'aeroporto di Caselle, sembrava non giungere mai. Riconobbi l'imbocco per Torino, finalmente. La periferia del nord della città, da cui mio padre mi aveva sempre detto di tenermi alla larga.
"Tra Falchera, Rebaudengo e Borgo Vittoria non so cosa sia peggio" aveva detto, continuando a guidare nel buio della notte.
"E Barriera?" domandai, avendo sentito parlare anche di quel quartiere.
"Lasciamo perdere!" esclamò.

Finalmente, ecco in lontananza la mia zona: la gelateria, il parchetto, le case a sei piani. Sentii il cuore accelerare come se dovesse arrivare primo a una gara. Quando ormai, la gara era stata vinta: casa mia era giusto alla mia destra.

Una volta scesa dall'auto, mi diressi immediatamente verso il portone, trascinando a fatica la mia valigia. Ma avrei dovuto attendere ancora mia madre che, meno entusiasta della sottoscritta, sembrò persino allungare di proposito i tempi.

"Tre, due..." mormorai, osservando le chiavi venire ruotate nella serratura.
"Sonia!" mi riproverò per la mia impazienza mia madre. Ma me ne disinteressai. Entrai subito in casa, casa mia, buttando per terra la valigia che tenevo in mano, alzando le mani al cielo e chiudendo gli occhi per un attimo. Poi i miei accesero la luce. Nell'aria c'era un forte odore di chiuso, si respirava a fatica. Ma ce n'era anche un altro. Era quello di Torino, della mia città. Per quanto tempo avevo aspettato di tornare...

Entrai in camera mia. Tutto era ovviamente rimasto al suo posto, come l'avevamo lasciata prima della nostra partenza. I poster che avevo appeso al muro erano rimasti attaccati. I peluche si erano leggermente impoverati, anche se meno rispetto al mobilio.

Mi levai le scarpe e la felpa, appoggiando entrambi per terra, in ordine.
Tolsi il lenzuolo dal letto, con un gesto brusco. Mi cambiai prendendo dall'armadio l'unico pigiama che avevo lasciato a casa perché troppo piccolo. Ma in quel momento, stanca com'ero, non mi importava. Volevo soltanto sdraiarmi e dormire. Ero assonnatissima.

Lo indossai, andai a salutare i miei genitori frettolosamente, spensi la luce e mi buttai sul materasso, rimboccandomi le coperte. Nell'arco di pochi secondi mi addormentai, come se non avessi mai dormito in un letto così accogliente, tanto da perdere i sensi in pochissimi istanti.

Nella notte sognai intensamente. Mi capitava spesso di sognare dopo una giornata intensa. Alrisveglio ricordai quasi ogni dettaglio. I protagonisti della vicenda eravamo io, Daniel e altri ragazzi. Eravamo andati, verso sera, ad una manifestazione in piazza dove si sfidavano delle persone divise in gruppi a ballare.
Era uno spettacolo bellissimo, con musiche che non avevo mai udito prima, striscioni, fuochi d'artificio, abiti coloratissimi. Il tutto adornato da ballerini professionisti. Tra cui anche il mio ragazzo, che si esibí per la sottoscritta. Fu molto emozionante vederlo danzare. Fu così realistico da farmi pensare che, un giorno, avrebbe potuto concretizzare quel mio bellissimo sogno.

Mi svegliai con il sorriso sulle labbra. Guardai l'orologio che avevo sul polso. La sera prima mi ero dimenticata di toglierlo, talmente ero stanca. Le sette e dieci. L'orario a cui ero abituata a svegliarmi per andare a scuola a Torino. In Polonia mi alzavo quasi mezz'ora dopo. La scuola era a cinque minuti a piedi da casa mia e io non impiegavo più di un quarto d'ora per prepararmi.

Mi alzai dal letto, consapevole del fatto che non sarei più riuscita a prendere sonno. Dopo quell'ora riaddormentarmi sarebbe stato impossibile. Mi misi le pantofole, tipide e bicolori, ai piedi. Mi diressi in cucina, sollevando entrambe le braccia per sgranchirle dopo una nottata ben trascorsa.

Sul tavolo era stata stesa una tovaglia a quadri per la colazione. Era anch'essa vecchissima, con qualche buco qua e là sul tessuto ingiallito. Ma almeno svolgeva la sua funzione di camuffare le briciole che si sarebbero formate sulla sua superficie al taglio della prima fetta di pane.

Mi sedetti. Non c'era ovviamente niente da mangiare, per cominciare la giornata. Mi ricordai peró della barretta di cioccolato e della bottiglia di tè freddo che avevo comprato in aeroporto prima del viaggio. Avrei affrontato la mattinata con quelli, per cominciare.

I miei genitori stavano ancora dormendo, nella loro camera parzialmente vuota. Il mobilio era stato svuotato dagli abiti e da numerosi oggetti che avevamo venduto. Altri oggetti facenti parte dell'arredamento, invece, i miei avevano deciso di portarli in Polonia, fra cui varie decorazioni appese al muro.

Finchè loro avessero continuato a dormire, russando sonoramente, io non sarei potuta uscire di casa. Pregavo perché il loro risveglio avvenisse il prima possibile. Ero impaziente di andare a trovare Daniel e Vanesa, il mio primo obiettivo di giornata.

Alle otto in punto sentii una sveglia suonare, che irruppe nel silenzio di una mattinata cominciata da un po', per me. Proveniva dalla camera dei miei, precisamente si trattava di quella di mio padre.
Mi ero seduta sul divano per leggere una rivista, aspettando pazientemente che quella si avviasse e quando la udii non potei fare altro che alzare le braccia in segno di felicità. Finalmente mi sarei potuta preparare per uscire.

Sollevandomi dalla posizione in cui mi ero messa, mi diressi verso di loro, che si erano appena alzati. Mio padre s'incamminò per dirigersi verso il bagno.

"Come mai sei giá sveglia?" mi chiese immediatamente, vedendomi apparire di fronte alla sua persona. Non mi rivolse neppure un saluto.
"Non riuscivo a riaddormentarmi".
"Da quant'è che sei in piedi?". Le sue domande sembravano un interrogatorio.
"Un quarto d'ora più o meno" mentii sottraendo di mezz'ora il valore reale.
"Volevo chiederti una cosa".
"Dimmi".
"Posso andare a trovare Vanesa?".
"Quando, adesso?" chiese, stupito.
"Sì. Per favore, ci tengo molto. E anche lei".
"Ma è domenica per tutti. Di sicuro alle otto e mezza dormiranno ancora" cercò di placare il mio desiderio di uscire.
"No, no. Loro si svegliano a quell'ora. Saranno già in piedi quando arriverò".
"Va bene. Vai, allora".
"Grazie". Accennai un sorriso. Mi diressi in camera mia per cambiarmi. Avevo ancora addosso il pigiama.

Per le otto e venti uscii di casa, felice come non mai.
Percorrevo ogni passo con un grado di felicità sempre maggiore. Mi guardavo attorno: era bella, la mia città. Era molto diversa da quella in cui vivevo in Polonia. Erano entrambe gradevoli, ma erano due bellezze differenti. Una aveva il fascino di una metropoli, con mille comodità, palazzi alti, strade e marciapiedi. L'altra, la solarità di un paesino, con villette, giardini, siepi e macchine che passavano giusto ogni tanto per le stradine a una corsia, circondate dal verde.

Arrivai davanti a casa di Daniel con il cuore a mille. Sospirai un paio di volte prima di bussare. Ero agitatissima. Volevo vedere che faccia avrebbe fatto nel vedermi comparire puramente a caso davanti a lui. Chiusi gli occhi, strinsi la mano in un pugno. Poi la feci scontrare un paio di volte sul legno della porta.
Attesi qualche istante. Udii una voce in lontananza: era la sua.
Mi emozionai moltissimo nel sentirla. Quanto tempo era passato da quando non ne sentivo il timbro...
Mancavano pochi istanti e avrei realizzato il mio più grande desiderio da tre mesi a quella parte: poterlo riabbracciare.

La storia prima della storiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora