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Daniel

Lentamente l'inizio di dicembre si stava avvicinando. Ciò significava molte cose: il saggio di danza, le vacanze natalizie ma soprattutto il ritorno a Torino di Sonia.
Facevo il conto alla rovescia dei giorni che mancavano: ormai erano soltanto ventuno, tre settimane esatte.

Quel giorno era l'ultimo di novembre, una giornata piovosa e tremendamente umida. Più che rimanere a casa sotto le coperte non si poteva fare molto. Soltanto persone folli come me potevano decidere di passare il pomeriggio a passeggiare sotto la pioggia, con le cuffiette alle orecchie invece che limitarsi a vivere l'esperienza indirettamente, guardando dal balcone la gente corricchiare tra i marciapiedi alla ricerca di un riparo dai pesanti scrosci d'acqua.

Decisi di percorrere a piedi la strada che mi separava dalla palestra, dove avevo avuto lezione. La pioggia, che si era presentata in momenti separati per ben tre volte in quella giornata, aveva cessato di esserci.

Amavo camminare. Portavo spesso Miele, il mio cane, con me. Era un incrocio tra un Golden Retriever e un Labrador. Aveva avuto, da giovane, uno splendido pelo color miele, da cui per l'appunto aveva preso il nome. Col tempo e la vecchiaia questo si era sbadito, lasciando spazio a qualche ciuffo grigio in prossimità del muso e delle zampe.
Miele mi seguiva in ogni avventura: lo portavo anche in bici con me, col guinzaglio al manubrio. Stava al mio fianco senza problemi, senza fuggire nè fermarsi.
Ero cresciuto con lui. Aveva dodici anni, ma se non fosse stato per la lieve peluria grigia tutti lo avrebbero scambiato per un adorabile cucciolo. Era sempre pronto a giocare o a farsi coccolare.

Per quella volta non potei portarlo con me. Aveva appena cessato di piovere a dirotto, e farlo camminare a lungo su marciapiedi coperto da enormi pozze d'acqua non gli avrebbe fatto bene. Oltretutto non era più molto giovane.

In ogni caso non ero solo, c'era la musica ad accompagnarmi: i miei cantanti e strumenti preferiti. Avevo una cugina spagnola che faceva canto da sette anni e aveva fatto qualche cover che avevo sentito di recente sui social. La sua insegnante era molto brava, oltre che simpatica. Avevo avuto modo di conoscerla accompagnandola di persona a un concorso canoro, qualche anno prima. Purtroppo, però, non aveva vinto nonostante fosse arrivata alle semifinali.

Brano dopo brano, arrivai quasi sotto casa di Tommaso. L'ultimo chilometro lo percorremmo assieme: il mio amico mi venne incontro per porgermi un ombrello, senza sapere che stesse piovendo a dirotto. Ai piedi portava, incosapevole di quel diluvio, un paio di scarpe di tela appena comprate. Sarebbe bastata una goccia d'acqua per rovinargliele.

"Ciao, come mai arrivi da là? Oggi non hai preso il pullman, vedo" mi domandò subito lui, attento e perspicace.
"No, di fatti. Sono venuto a piedi".
"A piedi? Tu sei folle. Come cavolo hai fatto? Oltretutto ha appena iniziato a diluviare!". Feci spallucce.
"Beh, mi vedi. Sono vivo e sto bene".
"Spero per te che domani non ti venga una polmonite".
"Avanti, Tommaso. Sembri mia nonna" lo rimproverai.
"Salgo un attimo a cambiarmi le scarpe" disse, salendo su per le scale. In pochi istanti mi raggiunse di nuovo, e potemmo incamminarci.

Arrivammo qualche minuto in anticipo davanti alla palestra, bagnati fradici nonostante l'ausilio dell'ombrello. Erano le tre meno un quarto. Avevo fatto molto in fretta, ma non ero stanco nonostante la lunga camminata.
"Che dici, entriamo a cambiarci? Almeno poi saremo già pronti" mi propose il mio amico.
"No, voglio rimanere qua a guardare".
"E cosa dovrebbe succedere? Non c'è nessuno in giro, è solo strapieno di automobili".
"Era per stare all'aperto" dissi.
"Col freddo che fa, mica è tanto bello. Ci saranno tre gradi". Non dissi più nulla.
"Allora?" mi chiese.
"D'accordo, va bene. Entriamo" conclusi, dandogliela vinta.

La palestra era caldissima in confronto alla temperatura esterna. Non vedevo l'ora di togliermi la giacca e indossare i pantaloncini corti.
"Secondo te oggi cosa si fa?".
"Non ne ho idea. Ma non penso andremo avanti, dobbiamo allenarci per il saggio".
"Quindi faremo un ripasso?".
"Penso di sí. Ma prima di tutto, step e addominali!" dissi, sventolando le mani in aria e alzando gli occhi al cielo.
"Evviva!" mi copió Tommaso.
"Secondo te Fabio verrá oggi? Ormai sono due lezioni che non lo vediamo".
"Non ne ho la più pallida idea".
"Forse gli è preso un brutto raffreddore e sarà a casa sotto le coperte a farsi portare una bella tisana calda dalla mammina assieme a un morbido peluche da abbracciare per non sentirsi solo nella malattia" scherzó il mio amico. Scoppiai a ridere.
"Te lo immagini? Lui con un orso gigante di peluche tra le braccia e la madre che gli rimbocca le coperta e gli dice, baciandogli la fronte:' guarisci, amore della mamma!' ". Questa volta fu Tommaso a ridere.
Sentimmo tossire. Ci girammo istintivamente. Era Fabio.
"Ma ben tornato!" sentenzió il mio amico, battendo le mani un paio di volte. Fabio gli si avvicinó, chiudendo la mano a pugno.
Tommaso gli si avvicinó ancora di più.
"Non toccarmi" gli sussurró in tono provocatorio.
"Tanto qua tutti sanno come sei. Appena provi ad alzarmi un dito, urlo. E Annabella è proprio a pochi metri da noi, nell'altro spogliatoio a prendere le casse" concluse, sorridendogli, mentre masticava un chewingum.
"Allora non provocarmi" suggerí Fabio.
"Ci provo, ma è difficile. Sai, è divertente vedere che tu te la prenda così facilmente. Ma io non piango, non mi fai paura. A me non tratti male come fai col tuo ragazzo". Fabio sbiancó.
"A proposito, volevamo sapere il motivo per cui tratti come una merda Andrea. Sembra un bravo ragazzo, non merita di stare con uno come te".
"La volete smettere di impicciarvi nella mia vita? Cosa volete da me?".
"Noi niente. Ma l'altro giorno ti abbiamo visto con Andrea. Anzi, più di una volta. Una volta lo tratti bene, uscite assieme a mangiare al ristorante. Poi, la volta dopo, lo tratti come se non lo conoscessi. Lascia stare quel ragazzo. Ma sa come sei veramente? O pensa che tu sia una brava persona?".
"Tu lo conosci?".
"No, non lo conosco. Ma davvero, mi fa rabbia che tu ti comporti cosí. Cosa pensi di fare, Fabio? Di comandare gli altri? Di essere superiore? Di fare il bullo? Non penso durerà a molto, il tuo giochetto. Prima o poi anche il tuo ragazzo si renderà conto di che persona tu sia" ribadí.
Dopodichè Tommaso entró in palestra. Lo seguí a ruota, volgendo a Fabio un ultimo sguardo, dispregiativo.

Per la prima volta non aveva reagito. Non aveva osato ribattergli. Forse non aveva avuto il coraggio. Forse si era reso conto di avere torto e che Tommaso avesse ragione. Forse gli mancavano le parole giuste per farlo tacere. Ma era stato meglio così, sia per noi sentire le sue scuse che per lui, che si era di certo evitato figuracce.
Ormai non poteva più fare nulla, se non cercare di cambiare il suo comportamento.

Sia io che Tommaso volevamo andare in fondo alla questione, sapere di più su Andrea. Magari lo avremmo reincontrato, un giorno, forse quando sarebbe venuto a prendere il suo ragazzo, senza rendersi conto che il bel gesto che faceva non veniva apprezzato da uno come Fabio, scontroso e arrogante.
Chissà cosa ci vedeva di bello in lui.

La storia prima della storiaWhere stories live. Discover now