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Daniel

Era incredibile come il tempo passasse velocemente. Ogni giornata, positiva o meno che fosse, era portata a volgere al termine, prima o poi. Anche la più noiosa, quella poco stimolante e causa di paranoie; quella che faceva pensare di aver sprecato ventiquattro ore di esistenza a fare nulla; quella fonte di nervosismo, che conduceva a un continuo sbuffare.

Mi ero reso conto di come gli ultimi giorni fossero passati rapidamente nel momento in cui, sentendo bussare alla porta di casa alla prematura ottava ora mattutina, capii che non poteva essere altra persona che Sonia. La sua partenza per la Polonia ci avrebbe separati a breve.

Andai ad aprire, mezzo assonnato. Feci una rapida capatina al bagno per sistemare i capelli e indossare le pantofole.
"Ciao, Sonia" la salutai una volta aperta la porta di casa. Il suo sguardo era triste. Il giorno precedente mi aveva avvisata che sarebbe passata a salutarmi prima di prendere l'aereo, senza però potersi fermare per molto. I suoi genitori glielo avevano impedito e in più le avevano comunicato all'ultimo l'orario della partenza.

"Hey, Daniel" mi disse, sussurrando dolcemente il mio nome. Con una mano sul gomito, aveva spostato lo sguardo a terra, quasi non avesse avuto il coraggio di comunicarmi con i suoi occhi ciò che avrebbe dovuto.
"Tutto bene?". La domanda non ebbe risposta. Guardai la sua giacchetta in simil pelle beige: era carina, non l'avevo mai vista.
"Che succede?" insistetti. Sospirò, poi prese parola.
"Fra poco partirò". Le sue labbra ebbero il coraggio di comunicarmi una notizia che gia sapevo, ma che mi fece male come fosse stata inedita.
"Mi mancherai tanto" dissi, facendole varcare la soglia di casa. Fuori, la temperatura era di una decina di gradi, non molto mite. Le nuvole, grigie, si estendevano per tutto il firmamento, impedendo al sole di manifestare la propria presenza.

"Allora, sei pronta per la neve?" le domandai cambiando discorso.
"In realtà non ci penso..." mi confessò, togliendosi le scarpe. Poi sprofondò nel silenzio.
"Sei triste?" le domandai. Lei, timidamente, annuí. Allungai una mano verso il suo viso, che accarezzai col dorso della mia mano.
"Posso abbracciarti?" mi chiese il permesso.
"Ma certo, Sonia" le risposi. E senza avere il tempo di spalancare le braccia, si fiondò contro al mio corpo.

"Scusa se non siamo potuti stare assieme" mi disse, stringendomi forte a sè.
"Perdonami" parlò ancora.
"Mi mancherai" sussurrò. Intanto io rimasi in silenzio. Avvertii solo un enorme groppo alla gola. Non capivo se si trattasse di malinconia, nostalgia, solitudine, senso di colpa. Ma sapevo di stare male, fin troppo per avere la forza di affrontare il dolore a parole. E così tacqui.

"Adesso è meglio che vada..." sentii pronunciare dalla voce di Sonia, che si era sporta verso la camera dei miei genitori dove mia sorella era intenta a guardare un film.
"No... di già? Questo vuol dire che fino a Natale non ci sentiremo..." mi lamentai, voltandomi per verificare che mia sorella ci avesse sentiti.
"Aspetta un secondo" dissi a Sonia, dirigendomi verso la stanza dei miei per chiamare mia sorella. Giunto davanti alla porta, la scostai delicatamente col palmo della mano. Sonia si sporse per guardarmi.

Poco dopo tornai con mia sorella accanto a me, che per poco riuscí a trattenere le lacrime.
"Ciao..." pronunciò, timidamente Vanesa, di fronte alla mia ragazza. Anche per lei era dura doverle dire addio per la seconda volta.
"Ho sentito che devi tornare a casa, adesso" proseguí poi, deglutendo per il nervosismo.
"Sì, i miei hanno dato il permesso di passare a salutarvi per l'ultima volta, prima di partire. Fra poco dovró già andare via, il volo sarà prima delle undici".
"Oh. Mamma mia, sono passati super in fretta, queste giornate" sentenziò Vanesa, leggendomi nella mente.

"Giá". Sonia era stranamente molto fredda, quasi apatica, senza emozioni. Non aveva accennato neppure mezzo sorriso. Non lo feci nemmeno io, per evitare di sembrare fuori luogo.

"Ascolta, ti lascio il mio numero di telefono. Almeno questa volta non rimarremo senza sapere l'uno dell'altra per mesi. E potremo chiamarci ogni tanto" disse, porgendomi un foglio di carta stropicciato.
"Certamente, grazie". Mi posò in mano il foglietto, con scritte le cifre in viola, con una bella calligrafia.

Guardai mia sorelle come a chiederle, con uno sguardo, se lei fosse a conoscenza del motivo per cui Sonia fosse così fredda. Ma anche lei parve non sapere.
"Sonia, facci un sorriso. Ti prego" le dissi. Lei sorrise, anche se gli occhi erano pieni di malinconia.
"Ora vado, Dane" sussurrò.
"Ma... aspetta, c'è qualcosa che vuoi dirci?" domandai, sfiorandole una spalla con una mano.
"Nulla, Dane. Nulla" disse scuotendo il capo.
"Sei sicura? Sei molto distaccata" le feci notare. Mia sorella, accanto a me, avrebbe detto lo stesso.
"Credo sia per la partenza. Sono triste a sapere che non ti vedrò per altri due mesi. Ho come la sensazione che anche questa volta, qualcosa possa andare storto" dichiarò facendomi sentire la pelle d'oca.
"Ma no, dai, cosa può accadere?" chiesi, incrociando le braccia.
"Non so, ho paura però". Sospirò.
"Spero che i miei mi facciano tornare presto qui" aggiunse.
"Saremo felici di ospitarti di nuovo".
"Grazie. Io ora devo andare" pronunciò inesorabilmente. Quella volta non avrei potuto fare più nulla per trattenerla.
"Ti posso accompagnare sotto casa tua?" le chiesi.
"No Dane, grazie. Non amo gli addii o cose del genere. Salutiamoci definitivamente qua, senza fare avanti e indietro e darci mille frivoli saluti".
"Va bene, come preferisci". Sorrisi fievolmente. Ricambiò il mio sorriso. Ne fui felicissimo.

"Dai, tu vieni a salutarmi per bene" disse, a Vanesa, che era rimasta di fronte a lei, indecisa sul da farsi. Si abbracciarono.
"Ciao, So' ". Sonia le schioccò un bacio sulla fronte, facendosi spettinare la frangetta.
Poi guardò me.

"Ciao, Dane".
"Ciao, principessa" le dissi.
Andai ad abbracciarla.
"Abbi cura di te".
"Grazie. A te in bocca al lupo con il liceo, con le tue compagne, con Fabio e compagnia bella. E ovviamente con la danza. Tienimi aggiornata, eh?".
"Certamente". Sorrisi. Scostai la porta di casa. Lei guardò in basso, mordendosi un labbro, sistemò le bretelle dello zainetto che portava in spalla e indossò le scarpe, lentamente, rivolgendomi un ultimo sguardo. Richiusi la porta, sapendo che non ci saremmo più visti per molto.

Sporgendomi di qualche metro alla mia destra, Vanesa si affacciò alla finestra dell'entrata per vederla incamminarsi, ma quando volse lo sguardo verso il marciapiede, notò che lei non era lì.
Vide però una Golf grigia a un centinaio di metri da casa, che si allontanava velocemente sulla strada. Quasi sicuramente era l'auto dei suoi genitori che erano venuti a prenderla. Mi disse una bugia, prima. Ci rimasi male, non mi spiegai il motivo della sua menzogna.

Mi ritrovai per la seconda volta a dover affrontare il vuoto causato dalla sua assenza, e mi sarebbero mancati i racconti delle sue avventure narrati come solo lei sapeva fare, le sue giornate no confessate solo alla mie persona, o ancora quando passavamo le ore assieme sul letto senza dirci nulla, ma soltanto scambiandoci qualche bacio o sguardo e sapendo che eravamo lì, l'uno assieme all'altra, e andava bene comunque.

Tornai in camera mia, seguito da Vanesa che raggiunse Miele in salotto, e mi sdraiai sul letto a pensare. Poi mi ricordai del regalo che Sonia mi aveva portato dalla Polonia: il diario che mi aveva scritto.

Scesi energicamente dal letto, aprii il comodino, nel cui cassetto inferiore avevo riposto il prezioso dono. Lo presi tra le mani, girandolo un paio di volte. Aveva la copertina leggermente rovinata, con una macchia d'inchiostro sbiadita sul retro.

Lo aprii e iniziai a sfogliarlo, rapidamente. Ogni pagina era scritta con cura, rispettando i margini. All'inizio di ogni giornata, il testo cominciava con "Caro Dane". Mi emozionai non poco nel leggerlo.
Si percepiva quanto tenesse a me.

Le parole erano scritte con una calligrafia stupenda, in corsivo, con la stessa penna per tutta la durata del diario. Amavo la sua precisione e la sua raffinatezza nel fare le cose, soprattutto se erano destinate agli altri.

Divorai quel diario in poche ore. Amai le cose che decise di scrivere, come il parlarmi della Polonia, delle persone che lungo il cammino aveva incontrato, della scuola, dei suoi compagni, dei suoi nuovi amici, dei voti. Immaginai tutto grazie alle sue descrizioni. Fantasticai di essere lí, accanto a lei, a parlare il polacco o a respirare un'aria diversa rispetto a quella di Torino o a mangiare una zuppa in un ristorante tipico.
Mi emozionai nel sentirle dire che sua mamma era rimasta incinta e che avrebbe avuto un fratello o una sorella.
E che forse i suoi genitori le avrebbero permesso di prendere un animale, forse un gatto.
Ero contento che avesse scelto me per confidare tutto ciò che le stava succedendo, a migliaia di chilometri da me.

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