Special p. 1

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Angolo Autrice
Dunque eccoci davanti ad un POV infiltrato. Chi sarà a narrare? Scopritelo leggendo.

Chiusi gli occhi e lasciai che la sensazione mi travolgesse. Quell'immenso senso di goduria e piacere che mi toglieva il fiato e mi attraversava il corpo e la mente, cancellando ogni preoccupazione.
Il mio corpo ricadde sul letto, totalmente sfinito dopo il terzo giro.
Sentii le sue labbra baciarmi una spalla, ma ero troppo assonnata per dirgli di non farlo. Per dirgli che mi dava fastidio.
Non mi preoccupai di troppo e mi rannicchiai per dormire, sapendo che lui se ne sarebbe andato da solo prima che arrivasse mia madre.
Lui mi disse qualcosa, ma non lo sentii e non lo compresi, già immersa in un mondo onirico pieno di oscurità.

Un tempo ero diversa. Un tempo non avevo questo trucco pesante perennemente sul mio volto diafano. Una volta non portavo vestiti così scuri da confondersi con l'oscurità. Una volta erano semplici e non pieni di borchie e pizzi. Una volta avevo una maschera invisibile e non una così appariscente.
Una volta ero diversa.
Fin da piccola, avevo un unico sogno. Diventare come mia madre.
Livia Daniels era la donna più sbadata e sciocca che conoscessi, ma era buona d'animo ed era gentile ed altruista. Per me era il massimo esempio da seguire.
Non mi importava di nient'altro, se non essere come lei e come mi voleva.
Mio padre invece, era un uomo rispettabile alla quale obbedivo con piacere. Gli obbiettivi che mi premetteva erano traguardi che dovevo per forza raggiungere. Volevo che fosse fiero di me, così come lo era di Jude. Probabilmente in quel modo avrebbe apprezzato anche la mamma, dato che ero simile a lei.
Mamma e papà non avevano un vero e proprio rapporto. Così come era tra me e Jude. Ma io pensavo che infondo si volessero bene, che si amassero tanto da non aver bisogno di dimostrarlo affettivamente o fisicamente.
All'epoca non volevo notare l'insormontabile distanza tra i miei genitori.
Mi illudevo di avere una famiglia felice. Mi illudevo di essere felice.
E così, per mantenere tali apparenze, seguii Jude all'Accademia dell'Arte.
Mio fratello si era fatto un nome in quel luogo. Era capitano della squadra di Basket ed era considerato un genio della matematica. Le ragazze gli sbavano dietro, nonostante lui fosse troppo preso da se stesso per accorgersene.
Il livello di attenzione di mio fratello era assai basso e credo che non ne avesse mai avuta per me. Dubitavo che sapesse persino della mia esistenza.
Però, grazie a lui, venni subito puntata.
Mi cibavo delle attenzioni altrui, fingendomi felice e d'accordo con le persone che mi cercavano.
Quelle che credevo amiche mi cercavano e mi facevano sentire importante, quando poi scoprii che volevano solamente un trampolino di lancio per Jude.
Credo che quando lo scoprii fu il momento in cui si ruppe qualcosa della mia immagine idilliaca del mondo.
Cercai di risolvere la situazione da sola e affrontai quelle ragazze. Ero certa di essere nella parte del giusto e pensai che esponendo i miei pensieri avrei ottenuto giustizia. Si sarebbero scusate e sarebbero diventate vere amiche.
Ma mi sbagliavo di grosso. In un attimo, fui di sola.
In quel periodo, non avendo compagnia, provai ad avvicinarmi a mio fratello, iniziando a seguire le sue partite ed allenamenti.
A Jude non sembrava dare fastidio, ma sembrava non chiedersi nemmeno il perché della mia solitudine.
Non glielo dissi. Semplicemente lo seguivo.
Ed è i quei momenti che iniziai a notare una particolare stella.
Xavier Bellson era in assoluto la persona più carismatica, affabile e caratterialmente interessante che avessi mai visto.
Non era il capitano. Non era il più alto. Era solo uno del primo anno come me, eppure si atteggiava a grande uomo, a star del momento. Inoltre, era indubbiamente carino.
Probabilmente non avrei continuato a seguire mio fratello, se Xavier non fosse stato nella squadra.
Pensavo che lui fosse l'ideale della popolarità. Pensavo che lui dovesse essere sicuramente pieno di amici che lo amavano. Perché non si poteva non apprezzare una figura come lui.
Eppure non era così.
Le voci correvano e molti suoi compagni lo accusavano di corruzione. Pensavano che i suoi voti fossero dovuti al padre ricco, così come la sua entrata nei club scolastici più popolari.
Ma io non ci credevo. Quel ragazzo era veramente pieno di talento e volevo veramente che le persone lo capissero.
Ma mi astenni dal parlare a quelle persone.
In seguito, capii che le voci erano dettate solamente dalla gelosia nei suoi confronti e che lui avesse affrontato la situazione molto meglio di me. Lui dimostrava che gli altri avevano torto.
Xavier era ricercato, ma c'erano solamente due persone che tornavano sempre al suo fianco.
Uno era Matthew Hellman, che scoprii essere il suo migliore amico e l'altra era sua sorella gemella Janette Bellson.
Janette era quel genere di persona che pensava che il mondo girasse attorno a lei. Non aveva nulla di simile al fratello e il suo essere tanto insulsa mi dava tremendamente fastidio.
Però volevo conoscere Xavier e Janette aveva bisogno di qualcuno che le desse credito.
Passare il tempo con lei mi fece capire quanto le persone potessero essere crudeli e schifose. La mia fiducia verso la società umana diminuiva sempre di più in cuor mio, ma la mia maschera rimaneva sempre intatta.
Ma tutto si dissolse una notte. Quella notte.
Non ho mai detto a nessuno di quella notte e ho fatto credere a Xavier di non ricordarla affatto. Ho fatto credere a tutti di non ricordarla. Perché nemmeno io volevo ricordarla.
Jude mi portò alla festa di casa Bellson, un'enorme villa a tre piani illuminata da luci laser e piena di musica a tutto volume. Eppure, nessuno del vicinato sembrava preoccuparsene, o forse, semplicemente, anche loro erano alla festa.
Janette aveva insistito che partecipassi alla sua festa di compleanno, il quale comportava anche quello del fratello. Janette aveva sempre festeggiato con lui, forse perché, una parte di lei, era consapevole che nessuno sarebbe voluto venire a una festa solamente sua.
Aveva insistito che io venissi come sua personale invitata.
In un certo senso, mi faceva pena la sua situazione e iniziavo a credere seriamente che, forse, sarei riuscita a perdonare i suoi errori e ad esserle veramente amica.
Alla fine, Janette mi aveva presentato anche suo fratello e, come sospettavo, io e lui andavamo incredibilmente d'accordo.
Non avevo ancora mostrato la vera me stessa a lui, però, in cuor mio, mi fidavo tanto da credere che lui avrebbe accettato qualunque mio pensiero. Che fosse negativo o positivo.
Non mi sentivo bloccata, non avevo bisogno di sforzarmi con lui. Ero a mio agio.
Alla festa non mi stavo divertendo affatto.
Jude era sparito e Janette non si era fatta vedere.
Le canzoni che quegli studenti ubriachi fradici ballavano erano orribili remix di cantanti sopravvalutati.
Non avevo mai provato tanto fastidio. Non sopportavo le persone che mi venivano addosso barcollanti. Non sopportavo quel frastuono di risate e grida.
Mi allontanai dalla calca di gente e uscii dal retro, verso la piscina anch'essa gremita di gente.
In quel momento scorsi Janette.
Ma Janette non era sola perché stava ridendo con due ragazze. Le ragazze che una volta credevo amiche.
Mi nascosi dietro un albero da decorazione e cercai di origliare la conversazione.
«Hebe? Andiamo, quella è una tipa così noiosa ed insulsa. Sono certa che desideri solo che mio fratello si infili nelle sue mutande. Che svergognata.» la sentii dire.
Le mie mani si strinsero a pugno, ma continuai ad ascoltare da masochista qual ero.
«Abbiamo passato un sacco di tempo anche noi con lei. Si è pure presentata dicendo che ci stavamo comportando male e pretendeva delle scuse. È così patetica! Sembra assurdo che sia sorella di Jude Daniels. Cioè, tu e tuo fratello siete così simile mentre quei due sono praticamente le stelle e le stalle.» ridacchiò Catherine.
«A proposito di Jude Daniels, pare che stia frequentando Jillian Sutton. Quindi non è più nella piazza?»
Smisi di ascoltare quelle oche e mi diressi nuovamente all'interno dell'edificio.
Non potevo permetterglielo. Non potevo permettere loro di farmi del male. Non potevo cadere così in basso.
I miei piedi mi portarono direttamente verso i bicchieri di cocktail alcolici e, senza nemmeno controllare di cosa fossero fatti, bevvi tre bicchieri, uno dietro l'altro.
Avevo bisogno di dimenticare quella sensazione di disgusto che avevo addosso.
Non sapevo se odiassi più loro o me stessa che, pur consapevole della loro crudeltà, mi fossi lasciata squarciare da quelle parole dettate da un'immensa stupidità.
Qualcuno si avvicinò alle mie spalle e mi chiese di ballare.
Io non sapevo ballare e nonostante la mia mente poco lucida, riuscii a rifiutare. Senza la musica giusta non avrei mosso un dito.
Però quel tizio sembrava insistente. Non mi sembrava di conoscerlo, però era familiare. Forse uno dei compagni di squadra di Jude.
Lui sapeva il mio nome e io non mi presi nemmeno la briga di chiedere il suo.
Da quel momento in poi fu qualcosa di confuso. Forse lo assecondai anche se non era da me. Forse lasciai che si approfittasse di me. Forse avevo acconsentito quando lui mi ficcò la lingua in bocca, o quando iniziò a scorrere le mani sotto la gonna.
Nessuno veniva in mio soccorso. Quindi probabilmente mi piaceva.
Il ragazzo mi portò fuori dalla casa, anche se non volevo lasciare la festa e il mio bicchiere di alcool.
Non sapevo dove mi stesse portando, ma non ci volevo andare.
Ricordai la sua mano che mi circondava il polso e mi trascinava con tanta forza da farmi male. Barcollavo sui tacchi presi in prestito da mia madre e mi sentivo disgustosamente sporca.
Lui mi portò verso un'auto. Mi fece stendere sui sedili posteriori e si coricò su di me, riempiendomi di saliva con la sua bocca appiccicosa.
Era invadente.
Non riuscivo nemmeno a protestare se non emettere deboli gemiti.
Non capivo appieno quel che stava succedendo e iniziai a spaventarmi solo quando mi tolse le calze sotto la gonna.
Tentai un calcio alla cieca e di gridare, ma la sua bocca fu sulla mia in un attimo per zittirmi. Le mie gambe erano bloccate dal sedile anteriore e il suo corpo e non avevo spazio per agitarmi.
All'inizio piansi e cercai di ribellarmi. Ma poi capii che non c'erano speranze. Che ormai era troppo tardi. Che nessuno mi avrebbe salvata e che io stessa mi ero rovinata.
Perlomeno a lui stava piacendo rubare la purezza ad una povera babbea ubriaca.
Prima che terminasse per raggiungere la sua beata goduria, il suo peso venne trascinato via da me, liberandomi da quel masso soffocante.
Però ormai non avevo nemmeno il coraggio di alzarmi e affrontare la realtà dei fatti. Mi vergognavo troppo.
Sentivo solo dei gemiti di dolore. Forse qualcuno lo stava picchiando. Eppure io non trovavo la forza di guardare.
Una figura mi torreggiò nuovamente sopra e d'istinto, per paura, lo colpii sul naso con il gancio destro. Mi agitai e gridai spaventata.
«Ehi, ehi, shhhh è tutto finito.» mi sussurrò qualcuno. Conoscevo quella voce e quando compresi a chi appartenesse mi vergognai ancora di più.
Xavier mi coprì il corpo con una giacca e mi abbracciò accarezzandomi i capelli, mentre le mie lacrime continuavano a scendere copiose.
«Cazzo, lo denunciamo questo bastardo.» lo sentii sibilare.
All'udire quelle parole mi staccai da lui. Stringendomi con una mano la sua giacca.
«No.» dissi spaventata.
«Come sarebbe a dire no? Quello che... Quello che ti ha fatto è un reato!» mi disse.
«Senti, non sei lucida e...»
«Ho detto di no. Non coinvolgere gli avvocati.» dissi disgustata solo all'idea.
«Nessuno lo deve sapere.» chiarii.
«Ma che stai dicendo?!» protestò Xavier.
«Non posso farlo sapere a nessuno, Xav. Mia madre... Mio padre... Non voglio che lo sappiano.»
«Hebe, tu ora non ragioni... I tuoi genitori e Jude ti difenderanno...»
«Ma cosa penserebbero di me? Che ho bevuto ad una festa e che mi sono fatta abbindolare. Si vergognerebbero di me anche perché non saprei se ho effettivamente rifiutato e detto di no...» balbettai tra un singhiozzo e l'altro.
«Hebe. È lui che ha sbagliato. Sono tutti ubriachi in questa festa e...»
«E poi saresti nei guai. Non posso dirlo a nessuno e non voglio. Ti prego, non dirlo a nessuno. Per favore.» gli dissi stringendo la sua maglietta e guardandolo con gli occhi velati dalle lacrime.
«Hebe...»
«Ti prego.» scongiurai.
Xavier sembrava combattuto tra ciò che era giusto fare e ciò che gli stavo chiedendo.
Mi vergognavo troppo di me stessa per rendere pubblica la cosa.
Avevo troppa paura.
Xavier uscì dall'auto e mi aiutò a scendere. Mi tremavano le gambe e il mio corpo rabbrividiva dal freddo.
«Non puoi tornare a casa in queste condizioni. Vieni con me.»
Xavier mi portò verso la tenuta oltre la piscina dietro casa sua. Era una stanza con bagno, mini cucina e un letto, tutto racchiuso in quattro pareti. C'era persino in televisore e una scrivania con un computer.
«Era stata inizialmente concepita come casa dei giochi mia e di Janette. Ora è diventato il luogo dove vengo a studiare per gli esami. È tranquilla e nessuno mi viene a disturbare come accadrebbe se lo facessi in camera mia. Ogni tanto ci passo la notte. Puoi usare il bagno per sistemarti.» mi disse richiudendosi la porta alle spalle.
Gli sorrisi grata, ma nel farlo mi tremò il labbro e iniziai nuovamente a piangere. Mi rannicchiai a terra sotto gli occhi stupiti del ragazzo.
Non sapeva veramente cosa fare con me se non abbracciarmi di nuovo per consolarmi.
«Fammi dimenticare.» sussurrai.
«Cosa?» chiese lui.
«Fammi dimenticare di tutto questo.» lo pregai con gli occhi.
Lui scosse la testa.
«Sei sconvolta e...»
Ma prima che finisse la frase lo baciai. Lui non rispondeva ma io continuai ad insistere. Volevo veramente dimenticarmi di tutto. Ne avevo bisogno.
«Cazzo, sono una persona orribile.» lo sentii sussurrare prima di prendermi in braccio e spostarmi sul letto.

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