44. Stop

6.6K 405 295
                                    

Non so per quanto tempo Ace mi tenne abbracciata a lui. Era leggermente impacciato, forse perché non sapeva esattamente cosa fare.
Quando eravamo piccoli, in genere, era lui che mi faceva piangere e Arn ad occuparsi di consolarmi. Oppure se per disgrazia era qualcun altro a farmi frignare, Ace cercava di sparare qualche battuta per alleggerire la situazione o peggio, rincarava la dose dicendo le cose più sbagliate.
Ma quella volta stette in silenzio.
Ero così egoista da non riuscire a trovare conforto nell'abbraccio di mio fratello, anzi, mi sentivo ancora più miserabile.
In realtà non sapevo nemmeno per quale motivo piangessi di preciso e ciò mi fece piangere ancora di più. Quando arrivai alla conclusione che tutti i miei problemi avevamo a che fare con una sola parola, ovvero Lance, piansi ancora di più.
La parola pietoso non mi rendeva abbastanza.
«Dai Zhur, mi stai sporcando tutta la felpa.» sussurrò Ace nel tentativo di tirarmi su di morale. Piansi ancora di più ovviamente.
Poi finalmente ci diedi un taglio e rimasi con la testa appoggiata sulla spalla di mio fratello a guardare con occhi, ciglia e guance umide il via vai di persone dal pronto soccorso.
In quel momento pensai. Pensai a tutto e a me.
Poi lui uscì da solo, si guardò intorno e mi individuò.
Si diresse verso di noi e si parò davanti a me guardandomi negli occhi.
«Vi lascio soli.» commentò Ace in un improvviso atto di capacità comprensiva.
«Scusa.» mormorò Lance.
Non dissi niente, attesi che aggiungesse un "ma non dovevi colpirla" che non arrivò.
«Solo scusa?» chiesi.
«Se ti dicessi che non mi pento di quel che ho fatto mi lasceresti.» mi disse.
Lo guardai seria, pensando che stesse scherzando ma non era così, lo pensava veramente.
«Stiamo insieme da poco ma è normale che ci saranno alti e bassi...» continuò senza riuscire a guardarmi in faccia. Non sapevo se credesse veramente in quello che diceva.
Il mio cuore mi diceva di amare quel ragazzo perché era l'unico che era riuscito a farmi farmelo battere nel modo corretto. Mi diceva di perdonarlo, di fidarmi... Ma c'era una cosa che lui stesso mi aveva insegnato a fare e che non potevo più ignorare: amare me stessa.
«Lance, stiamo insieme da poco, ma voglio essere certa di sapere che stai con me perché mi ami, e non perché con Iris eri infelice.» gli dissi con voce stranamente salda.
«Io ti amo.» disse.
Era quello che avevo sempre aspettato. Era quello che più desideravo. Eppure in quel momento mi sembrava fuori luogo. Non sentivo il cuore battere forte o emozionarsi, non faceva capriole come avrebbe dovuto.
Capii che ero ancora troppo ferita e quella volta non avrei più permesso che mi passasse inosservato.
Mi avvicinai a lui e lo baciai.
Inizialmente Lance ne fu sorpreso, ma poi ricambiò con fervore.
Quando ci staccammo gli sussurrai delle parole che incrinarono quell'espressione speranzosa sul volto del mio ragazzo.
«Prendiamoci una pausa.» gli dissi.
«Zhur... Ci siamo appena messi assieme. Dammi il tempo di dimostrarti che tengo veramente a te.» mi rispose con tono di chi cercasse di essere ragionevole. Come se fossi io quella confusa.
«Puoi farlo. Ma intanto prendiamoci una pausa.» mi allontanai appoggiandogli le mani sul petto ampio.
Gli fissavo la clavicola e non il volto.
Lui non mi rispose e mi azzardai a guardarlo.
Era ferito. La sua espressione era così abbattuta che quasi mi fece desistere.
Iniziò a frugarsi nella tasca e poi mi porse un biglietto.
«Per il treno.» mormorò rigidamente senza guardarmi negli occhi.
«Credo sia ancora valido.»
Annuii e lo presi, sfiorando le sue dita.
«Quando tornerai?» chiesi piegando la testa.
«Stasera...» commentò.
«Allora domani verrai a scuola?» chiedo.
«Mamma sicuramente dirà a papà quello che è successo... Probabilmente finirò per un po' in gattabuia.» scherzò.
Eravamo troppo formali, quasi fossimo due sconosciuti.
«Allora noi torniamo a Londra.» dissi concludendo l'agonia.
«Bene.»
«Bene.» ripetei. Poi mi allontanai.

Non piansi più fino a quando giungemmo a casa.
Feci finta di niente quando Arn mi faceva domande insistenti, così lui si rivolse al suo gemello. Ma Ace non disse niente lasciando il povero Arn pieno di dubbi.
Il giorno seguente andai a scuola con i miei fratelli. Proseguii verso il bar vicino alla scuola, dove io e Hebe avevamo concordato di incontrarci.
La trovai mentre sorseggiava un cappuccino al solito posto all'angolo, mentre messaggiava con qualcuno che le faceva sorridere.
«Theo?» chiesi sedendomi di fronte a lei.
«Già.» commentò mettendo via il telefono.
«Sai, dovresti piantarla di lasciarlo in sospeso. Perché non lo rendi il tuo ragazzo?» chiesi.
«Perché il suo periodo di prova non è ancora finito.» replicò.
«Come periodo di prova? Non è mica un elettrodomestico a garanzia.» commentai.
Hebe scosse la testa.
«Lui mi aveva chiesto un certo lasso di tempo per farmi innamorare di lui come si deve. E solo al termine di questo lasso avrebbe ascoltato la mia decisione. È molto testardo e sta sfruttando veramente ogni giorno per...» rise mentre le sue guance candide si tingevano di rosso.
«Siete proprio carini, sai?» le dissi sorridendo. Ero veramente felice per lei. Era una sensazione così pura essere felici per qualcuno senza alcun pensiero invidioso o acido.
Ricordai che meno di un anno fa odiavo questo mondo. Credevo che l'unico modo per sopravvivere era essere egoisti e spingere quelli più deboli in basso, in modo da poter stare più in alto.
Ma era appunto solo un modo stupido di sopravvivere. Non sapevo vivere, anche perché non amavo me stessa. Avevo la costante sensazione di solitudine che cercavo di riempire nel peggiore dei modi. Mi accontentavo persino della compagnia di persone che non mi piacevano per niente, pur di darmi un'etichetta. Ma io avevo bisogno di un valore. Un valore che mi dovevo dare da sola.
In quel momento, mentre chiacchieravo con Hebe del più e del meno, non mi sentivo male come pensavo. Mi apprezzavo. Mi piacevo. Mi amavo.
È facile quando si deve amare qualcun altro. Innamorarsi dell'altro impiega poco ed è del tutto fuori dal controllo, forse nemmeno un battito di ciglia.
Come per Lance. Mi ero innamorata di lui senza nemmeno rendermene conto. Però amare me stessa era stato diverso. Ho percepito il cambiamento in me, mentre le persone attorno a me mi facevano capire che io potevo darmi importanza.
Era stato un periodo pieno di cambiamenti che io non potevo far altro che apprezzare, nonostante gli ostacoli che mi si erano posti davanti.
In quel momento Lance entrò nel bar e i nostri sguardi si incrociarono.
Forse un tempo l'avrei guardato male e l'avrei insultato, o forse avrei abbassato lo sguardo intimidita e avrei fatto finta di niente evitando. Avrei sentito troppo dolore e mi sarei sentita abbandonata.
Ma in quel momento capivo che avevamo bisogno entrambi di distanze per chiarirci meglio. Ci eravamo buttati tutti e due a capofitto in quella relazione.
Io perché ero stata sopraffatta dalla svolta che lui mi aveva fatto prendere della mia vita e lui... Lui probabilmente era troppo preso dall'abbandonare una relazione che non lo rendeva felice. Ma buttarsi in un'altra non era certo una buona soluzione.
Volevo dargli tempo. Volevo che capisse se stesso come lui aveva permesso a me di farlo. E poi, forse, saremmo potuti stare bene assieme.
Sorrisi a Lance e alzai una mano per salutarlo.
Inizialmente mi guardò sorpreso ma poi, infilandosi le mani nelle tasche dei jeans, ricambiò il sorriso, bello e smagliante.

Insicura (COMPLETA)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora