43. La forza di parlare

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«Ti ho preso un regalo» dissi tra un singhiozzo e l'altro allungandole il pacchetto con i guanti.
«Ma non me l'avevi già fatto?» chiese lei. «E poi non darmi il regalo mentre stai frignando. È deprimente.»
Tirai su con il naso.
«No. Non ricordo di averti dato il regalo.» mormorai.
«Ma quel pacchetto con il libro giallo e il bigliettino...» commentò.
Poi mi ricordai. Io e Lance avevamo già preso un regalo per Hebe e gliel'avevamo mollato in camera prima di fare l'amore per la prima volta. Eppure ce n'eravamo dimenticati entrambi. Assurdo.
Quando ci fermammo entrambe a casa mia, mi stupii.
«Mi hai portato a casa.» commentai.
«Spero per te che tu abbia cioccolata calda e marshmallow per tirarti su il morale.» rispose.
Poi mi resi conto che probabilmente non mi voleva portare a casa sua per via dell'onnipresenza di Lance. L'idea mi fece sentire leggermente meglio. E anche più importante.
Rientrai in casa e come sempre a quell'ora, non c'era nessuno a casa. O meglio. Mio padre era in casa ma dormiva. La mamma era probabilmente da qualche vicina e i miei fratelli fuori.
Un grande abbraccio dalla mamma mi avrebbe fatto bene in quel momento.
Purtroppo lei non c'era e nemmeno la cioccolata.
Mi dovetti accontentare del thé inglese e del mio adorato letto.
«Allora?» chiese Hebe mettendosi a cavalcioni sulla mia sedia girevole e con le braccia appoggiate sullo schienale.
Mi strinsi nelle mie coperte e soffiai sulla mia tazza calda.
Poi le raccontai tutto. A mano a mano che andavo avanti i ricordi si fecero sempre più vividi e il senso di impotenza dentro di me si fece più grande. Era difficile descrivere come mi sentivo emotivamente. Male non era la parola giusta. Ferita, forse.
Hebe rimase in silenzio alla fine del mio racconto.
«Quindi... È finita?» chiese senza assumere una particolare espressione.
Non riuscii a dirlo. A dire il vero non lo sapevo nemmeno io.
«So solo che non è più mio. Forse non lo è mai stato.» mormorai.
Scoppiai a piangere come una bambina patetica senza riuscire più a trattenermi.
Hebe mi guardò e poi fece una cosa che non credo abbia mai fatto di sua spontanea volontà. Mi abbracciò.
Quel gesto tanto gentile, invece di consolarmi, mi fece piangere ancora più forte, così tanto che iniziai a singhiozzare.
Solo pensieri negativi aleggiavano nella mia mente, con il prepotente bisogno di essere messi alla luce.
Il senso di abbandono causato da Lance era come una piaga che spegneva tutte le luci felici dentro di me.
«Non è l'averlo perso in sé a farmi male.» ripresi con la vista ormai offuscata. «È la consapevolezza di aver fallito, di aver fallito in tutto nella mia vita. A che serve avere amici che non sanno esserlo, che fuggono e ti criticano appena possono? A che serve cercare di andar bene a scuola quando per quanto ti impegni non riuscirai mai ad essere quel che vuoi essere, rendere orgogliosi i tuoi genitori, i professori e te stessa? Ci sarà sempre quella persona che ha tutto quello che vuoi e che per giunta gli riesce molto più facile che a te! A che serve essere innamorati se quello che porta è dolore e sofferenza? L'amore non è altro che un illusione di un bene superiore quando in realtà  è composto da lacrime e dolore. Le migliori gesta al mondo sono fatte per amore ma anche le sofferenze più grandi. Allora perché si continua ad amare? Io sono stufa di sentirmi così debole ed inferiore. Di essere sopraffatta da sensazioni così destabilizzanti. Ho tentato con lui, non ha funzionato, lui non riuscirà mai a accettarmi. Ci ho provato e riprovato a far funzionare le cose, ho messo tutta me stessa ma alla fine non ha funzionato. Ho fallito e lui se n'è andato. L'ho perso.» conclusi.
«È lui che ha perso te.» mi sussurrò all'orecchio la mia amica.
«Non so dirti nulla. Lo sai che Lance non mi sta simpatico, ma so che è una brava persona. È idiota, ma perché non lasci che ti dimostri che tiene veramente a te?» mi disse con tono insolitamente dolce.
«Se tenesse a me non sarebbe corso da Iris come se io non esistessi. Farebbe di tutto per lei.» dissi sempre singhiozzando. Strinsi le mani a pugno.
«Farebbe tutto anche per te. Azura, non sto difendendo Lance, il modo in cui ha agito poteva essere migliore. Ma credo che lui sia quel tipo di persona che aiuterebbe chiunque, soprattutto amici. Iris potrà anche non essere più la sua ragazza. Ma ciò non toglie che le voglia bene, e questo non significa che non ne voglia a te.» chiarì.
Non ero d'accordo. Ma Hebe faceva sembrare tutto ragionevole. Non seppi se mi avesse consolato o meno. Però avevo smesso di piangere in quel momento ed era già qualcosa.
Mi arrivò una chiamata e lessi immediatamente il nome di Lance con tanto di cuoricini rossi.
Rifiutai la chiamata.
«Belli.» commentò Hebe. Non avevo nemmeno notato che avesse tirato fuori i guanti.
«Felice che ti piacciano.» dissi forzando un sorriso.
Il telefono suonò di nuovo. Rifiutai nuovamente la chiamata, questa volta senza nemmeno guardare.
«Non rispondi?» chiese Hebe.
«No.» dissi secca.
A quel punto mi arrivò anche un messaggio.
«Se vuoi te lo leggo ad alta voce.» commentò la mia amica.
Ci pensai su, ma alla fine decisi di leggerlo nelle visualizzazioni di notifica, solo per non dargli la soddisfazione di aver letto il messaggio.
Raccattai il telefono.

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