9 - Wenham Lake

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Quando ero piccola io e papà facevamo un gioco. In aeroporto, ci sedevamo sempre di fronte alle immense vetrate che davano sulla pista d'atterraggio, con le caviglie incrociate sulle valigie, un caffè lungo per lui e una spremuta per me, e provavamo a indovinare dove fossero diretti gli aerei che rullavano lungo quella striscia di cemento chiaro.

Lui barava, l'avevo sempre saputo. Mentre io elencavo le capitali europee o qualcuno degli ultimi posti che avevamo visitato – poco importava se nella sperduta cittadina di Nieux neppure fosse presente un aeroporto, ero troppo piccola per saperlo – James si divertiva a inventare posti che in realtà neppure esistevano, per vedere se mi sarei accorta delle sue bugie.

Ricordo che lo guardavo sempre di sbieco, con quell'espressione che sarebbe poi diventata il mio marchio di fabbrica, un po' troppo seria e decisamente poco convinta e, quando lo scoprivo a inventare qualche nome, beh, a quel punto lo costringevo sempre a comprarmi la ciambella più grande di tutto l'aeroporto.

«Hai una pessima cera, sai?».

Alice socchiuse gli occhi, scrutandomi contrariata da sopra il caffè caldo che Dean ci aveva appena consegnato. Eravamo sedute sopra il lungo bancone che costeggiava la vetrata dell'aula studio all'ultimo piano della Churchill Accademy. No, da quella postazione non c'erano aerei da osservare, ma solamente l'immenso parco che si estendeva oltre gli alti cancelli in ferro battuto.

Quella era l'ala meno frequentata dell'intero complesso perché, proprio a causa di quella finestra, il sole si riversava sulla lunga fila di banchi, rendendo quell'ambiente una sorta di sauna, che gli studenti si guardavano bene dal frequentare. A noi però piaceva, e per quello passavamo ore lì, con le gambe incrociate e gli occhi socchiusi, assorbendo calore alla stregua di due lucertole.

Incastrai tra le dita il contenitore d'asporto, soppesando le sue parole, ma rinunciai a berne un secondo sorso. Era stato un dono di Dean, probabilmente l'ennesimo tentativo di ottenere il perdono di Alice per qualsiasi cosa avesse combinato. Sempre zelante, aveva finito per consegnare ad entrambe uno strano mix di latte di mandorle, caramello e una spolverata di cannella finale. Mi chiesi distrattamente se quella glorificazione del diabete avesse funzionato per ottenere il suo perdono e, da come Alice lo stava trangugiando, avevo la netta sensazione che la risposta fosse affermativa.

Tornai a concentrarmi sul nostro discorso. «Non mentivo, quando ti ho detto che ero ammalata» precisai, scrollando le spalle.

Nessuno mi aveva creduto quando li avevo avvisati che sarei stata a casa un paio di giorni a causa della febbre. Caleb sosteneva che in realtà volessi evitare Alice e, beh, lei sosteneva che volessi schivare i gruppi sportivi che si sarebbero formati a partire dalla prossima settimana. Il ché non era del tutto falso: niente mi avrebbe convinta a iscrivermi alla squadra di calcio o di lacrosse della scuola, tuttavia avevo l'impressione che gli altri riponessero delle grandi aspettative in me.

«Come te la cavi in fatto di coordinazione?» mi domandò drizzando la schiena e scrutandomi con l'occhio critico di una talent scout di modelle tredicenni della Grande Mela.

La mia incapacità per tutto ciò che richiedeva ritmo o sincronia era come un numero puro in matematica: impossibile da quantificare, adimensionale, insomma sprovvisto di unità di misura. Perché dire semplicemente "male", sarebbe stato riduttivo. Ero fermamente convinta, infatti, che l'unico sport degno di nota fosse quello che potevo seguire in televisione, possibilmente con un sacchetto di patatine fritte tra le mani.

«Un disastro, Alice. Davvero un disastro» risposi sottolineando bene il concetto con uno sguardo sconsolato.

Sapevo, però, che la mia risposta non avrebbe fermato la sua parlantina. Avevo infatti la sensazione che avesse totalmente bypassato quella fase della crescita dove non fai altro che chiedere il perché delle cose. James ricordava ancora i miei otto anni come il periodo più buio della sua vita, alimentato dal fatto che viaggiare così tanto aveva duplicato le domande che generalmente un bambino poneva. Per Alice invece, o quel periodo era appena iniziato, oppure non era proprio mai terminato.

IGNIWhere stories live. Discover now