13 - Questione di prospettiva

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Regola n. 1 del V.I.
Comprare sempre un gelato
in ogni nuova città.
(Otto anni, Lisbona)



«Buongiorno, Reed. Vai da qualche parte?».

Alex si staccò dallo stipite della porta. Il suo solito mezzo sorriso era velato da una smorfia di stanchezza, mentre la sua mano risaliva dal collo ai capelli, come se si fosse svegliato anche lui da poco.

Cercai nei suoi occhi le tracce dello scatto d'ira di qualche ora prima, ma non c'era nulla nel modo in cui mi stava guardando, a suggerirmi che avessimo condiviso quello strano momento sul patio degli Evans. Era rilassato, sfacciato. Esattamente la versione di sé che mi aveva propinato anche alla lezione di fisica, quando aveva voluto quasi controllarmi o verificare cosa pensassi, dopo avermi spinta ad andarmene da casa sua.

Lo osservai ancora per un istante, ma la tranquillità con la quale mi guardava non mi dava alcun appiglio per provare a riaprire quella conversazione, quindi riabbassai lo sguardo sulle cuffiette del telefono che stavo annodando per metterle in tasca. «Volevo andare a scattare qualche foto, vuoi venire?» proposi dubbiosa.

Alex mi faceva sentire sempre... incerta. E non solo perché il suo comportamento era una contraddizione unica. Riuscivo a superare il fatto che si comportasse sempre in maniera diversa. No, ciò che mi spiazzava era la costante sensazione di non capire mai per davvero la direzione dei suoi pensieri.

«Non vorrei mai averti sulla coscienza, Reed» replicò meditabondo, con l'ennesimo sorrisino divertito che tagliava il suo viso. E mentre io scuotevo la testa esasperata, prese una felpa e si diresse oltre il patio, facendomi cenno di seguirlo.

M'incamminai dietro di lui. La macchina fotografica a tracolla, la bottiglietta d'acqua mezza vuota incastrata nella tasca della felpa e il cellulare nell'elastico dei pantaloni. Neppure quando James mi aveva spedita per due mesi in Giordania ero conciata così male. Scesi velocemente i gradini che separavano la baita degli Evans dalla strada sterrata, per recuperare i metri con i quali Alex mi aveva già staccata.

Il manto di foglie umide attutiva i nostri passi e nonostante il cielo sembrasse ancora piuttosto scuro, dagli alberi iniziava a filtrare una tenue luce mattutina. Mi era sempre piaciuta quella parte della giornata. Ero un'inguaribile dormigliona e quindi raramente riuscivo a essere in piedi così presto, ma avevo sempre pensato che le prime ore dell'alba avessero un qualcosa di magico. Come se per qualche istante potessi fingere di essere l'unica persona esistente al mondo. Niente problemi, nessuna responsabilità.

«Dove stiamo andando?» chiesi osservando il sentiero di fronte a me.

Avevamo guidato di notte, quindi quella era la prima volta che osservavo la strada che avevamo percorso. Dallo sterrato principale, Alex si era subito staccato imboccando una viuzza intervallata da massi e ampie macchie di vegetazione, che mi davano l'impressione di poter nascondere animali o voragini di fango. Ci stavamo addentrando nel bosco ed era evidente che fossero mesi che nessuno batteva quel sentiero.

«In un posto». Fu la sua esaustiva risposta.

Mi costrinsi a reprimere ogni evidente segno di insoddisfazione, nonostante avessi avuto la tentazione di alzare gli occhi al cielo. Bene, anche oggi si era svegliato con una forte vena collaborativa nei miei confronti. «Che posto?» chiesi con fare accondiscendente, consapevole che mettermi a polemizzare con Alex non mi avrebbe portata da nessuna parte. Per qualche ragione, infatti, avevo la sensazione che più le mie risposte si facessero indispettite, più la cosa lo divertisse.

Lui, però, non doveva essere del mio stesso avviso. «Non ti spegni mai, Reed?» mi domandò, scimmiottando il tono estremamente tollerante che avevo utilizzato. L'ombra di un sorrisino aleggiò sul suo volto, mentre spostava un grosso ramo che intralciava il passaggio. «Non siamo più nello sgabuzzino della Churchill Accademy» m'informò.

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora