23 - Stevow

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«Cassandra, mi stai ascoltando?».

Il signor Case mi stava osservando con uno sguardo cortese, in attesa probabilmente di una risposta che non gli avevo fornito.

Trasalii, mettendo nuovamente a fuoco l'ufficio nel quale avevo passato gli ultimi tre giorni, con la parete trasparente che mi guardava, e il computer appoggiato su quella scrivania bianca, al cui bordo si erano arpionate le mie mani.

«Mi scusi, può ripetere?» chiesi un po' imbarazzata, voltandomi verso l'uomo alla mia sinistra.

Con mia grande sorpresa, gli angoli della sua bocca si tesero verso l'altro. «Cassandra, puoi chiamarmi Richard e puoi darmi del tu». Aveva la fronte aggrottata in un'espressione di ostentato disagio. «Non ferire il mio ego facendomi sentire vecchio» mi pregò.

Al mondo, immaginavo che esistessero davvero poche cose che potessero ferire l'ego del signor Case, e a maggior ragione quando eravamo all'interno della sua azienda, dove ovunque passasse sembrava di essere in presenza del messia.

Erano passati una manciata di giorni da quando avevo iniziato lo stage alle Industrie Case e, complice la mia amicizia con Alex, ero stata spostata dal ruolo di semplice stagista, a una sorta di assistente aggiuntiva di suo padre. Non che mi avessero chiesto davvero di occuparmi dei suoi appuntamenti o della sua agenda. Era più una sorta di coaching sul campo. Lavoravo con lui, lo seguivo nei meeting e in paio di occasioni mi aveva consultata per avere un parere giovanile e fresco su alcune decisioni che l'azienda doveva prendere. Dovevo ammettere che nonostante il timore iniziale si stava rivelando un'esperienza interessante.

«C'è qualcosa che ti preoccupa?» insistette, tornando a rivolgere la sua attenzione su di me, dopo aver spento lo schermo di fronte a noi.

Stavamo lavorando al nuovo sito internet della Churchill Accademy ed era la seconda volta che il signor Case mi riprendeva.

Non lo facevo apposta, ma era da quando Alex mi aveva parlato di quella frase in latino che la mia mente sistematicamente si disconnetteva dalla realtà, nel tentativo di formulare ipotesi e collegamenti per capire cosa ci stesse sfuggendo.

Mentre rimettevo in ordine i miei pensieri, vidi il signor Case piegare leggermente la testa di lato. Un gesto che faceva sempre anche Alex quando era assorto, come se quel movimento lo aiutasse a concentrarsi meglio sul suo interlocutore.

Qualcosa mi preoccupava?

Forse quella era la domanda sbagliata, perché al momento erano poche le cose che non mi impensierivano: dai medaglioni, alla scuola, al ritorno di Jenna che non sapevo bene come interpretare visto che probabilmente io e James non saremmo rimasti per molto a Danvers e... Alex. La costante sensazione di non sapere fino a che punto potessi fidarmi di lui mi bloccava, lasciando che l'incertezza mi attanagliasse imbottigliandomi in un circolo vizioso di pensieri nocivi.

Erano tutti ragionamenti che nella mia testa avevano un filo logico, ma che non potevo condividere con il mondo esterno e, soprattutto, non con il padre di Alex.

Alla fine quindi, mi ritrovai ad abbassare gli occhi, tentando di inventare una scusa meno imbarazzante della realtà. E cioè che io e suo figlio giocavamo agli investigatori privati nel tempo libero.

«Sì, abbiamo molti esami in questi giorni» mentii.

Lui si rilassò sulla sedia e prese un plico di documenti alla sua destra. «Allora direi che per oggi abbiamo finito» decretò.

Provai a ribattere, mentre un senso di colpa dilagava dentro di me: non lo avevo detto per saltare le ore del tirocinio, ma solamente per uscire da quella situazione scomoda.

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora