5 - La Churchill Accademy (II)

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Fu Alice a recuperarmi dopo la lezione di chimica. Ancora seduta al bancone intonso, mi trovò persa tra i miei pensieri mentre fissavo le provette trasparenti e disegnavo distrattamente cubetti tridimensionali con una matita a mina morbida. Non sapevo esattamente perché lo facessi. Perché inzaccherassi il mio banco di disegni senza senso, ogni volta che il mio cervello voleva scollegarsi per qualche istante. Tuttavia il disegno così come la fotografia mi aveva sempre rilassata. 

«Webb ti ha distrutta» decretò, appoggiando i gomiti sul tavolo e incastrando il mento sul palmo. Era il ritratto della salute: guance imporporate di divertimento, lisce ciocche nere incastrate dietro le orecchie e una linea meravigliosamente dritta di eyeliner a contornare i suoi occhi chiari. Niente occhiaie, niente postumi della sbornia. Tra le due, sembravo io ad aver bevuto come una spugna.

Mi affrettai a cancellare quegli obbrobri, e ricacciai il quaderno nella borsa, prima che potesse vedere gli appunti che mi aveva lasciato quel ragazzo. Aveva senso che non volessi parlarle dell'incontro della sera precedente? Forse no, ma assecondai il mio istinto, decidendo di eliminare quei pensieri dalla mia mente.

«In realtà, sono più sconvolta dal fatto che il corridoio dei laboratori abbia dei cuccioli di pterodattilo appesi al soffitto» mormorai simulando un finto brivido.

La Churchill Accademy accostava finiture di grande pregio, come la scalinata in marmo e i soffitti alti, con dettagli tipici di un parco divertimenti, esattamente come quelle riproduzioni di dinosauri, che ci osservavano minacciose mentre uscivamo dall'aula.

Alice scacciò le mie parole con un cenno noncurante della mano. «Non fare la guastafeste» mi riprese, appoggiandosi accanto a un cucciolo di T-Rex. «Io li trovo adorabili.»

Ovvio che li trovasse adorabili: era americana. Dovetti trattenere un sorrisino, perché era un classico commento di mio padre, quando si ritrovava a frequentare i musei statunitensi. Solo il Met di New York riusciva a soddisfare la sua vena critica, tutto il resto per James era solo fuffa.

Stavo ancora scuotendo la testa con fare esasperato, quando la fiumana di studenti del secondo piano ci spinse in direzione della mensa. Finimmo per rimanere incolonnate dietro alla squadra di basket, mentre Alice continuava a blaterale di tutti i corsi extrascolastici ai quali si sarebbe voluta iscrivere. Lo avrei trovato un argomento interessante, se non fosse che non ero assolutamente intenzionata a farmi coinvolgere da quegli eventi di massa.

Il perché era piuttosto semplice: non sapevo per quanto tempo mio padre avrebbe deciso di rimanere negli Stati Uniti. Poteva essere una settimana, così come un paio di mesi. L'ultima volta aveva lasciato Los Angeles dopo poco più di tre mesi e onestamente non mi aspettavo nulla di diverso neppure questa volta.

Una zaffata di odore speziato e pesante mi riportò alla realtà, costringendomi a mettere a fuoco i tavoli pieni di studenti e la lenta processione che avanzava verso il lato corto della stanza. Ogni volta che entravo in mensa, avevo la sensazione di essere stata catapultata nella stazione di comando di una navicella spaziale. Tutto era bianco: dai tavoli, alle divise candide del personale. L'unica nota che graffiava quella patina di asettica perfezione era la risata gutturale della cuoca, continuamente impegnata in una lotta senza possibilità di vittoria con i gusti difficili degli studenti.

«Qualsiasi cosa succeda, ricordati di non prendere il merluzzo.» Alice si stava riempiendo il vassoio, snocciolando la lunga serie di consigli, o meglio di avvertimenti, che mi ripeteva dal primo giorno in cui avevo messo piede in quella scuola.

«Niente pesce, sì allo sformato di patate. In generale, cerca di evitare tutto quello che prima poteva respirare, okay?». Rassicurante, davvero, ma avrei evitato di farglielo notare.

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora