3 - Comitato di accoglienza

19.7K 882 1K
                                    

La quarta casa dove avevo vissuto aveva un pianoforte. Non nuovo e sicuramente non in ottime condizioni, ma suonava. Ricordo che salivo in piedi sulla panca e mi sporgevo finché non sentivo il legno liscio e laccato sotto ai polpastrelli. Mi piaceva, credo, perché ci provavo ogni volta. E ogni volta, la curiosità mi spingeva a sporgermi sempre di più, per raggiungere quei tasti bianchi e freddi. E poi ancora di più, per quelli color ebano.

La prima volta che ero riuscita a toccarne uno, quel suono sordo mi aveva stupita talmente tanto, da aver finito per perdere l'equilibrio cadendo a terra. Era il "Re". Lo avevo scelto perché mi piaceva quella lastra avorio circondata da due sentinelle scure. Mi sembrava quasi che tentassero di proteggerla, forse addirittura di abbracciarla. Era diventata la mia nota preferita.

Una manciata di minuti dopo, mio padre mi aveva trovata ancora lì. Tentando di raggiungere nuovamente quel tasto, dolorante per la caduta, ma con il primo vero sorriso da quando mia madre se n'era andata. Il giorno successivo avevamo iniziato con le lezioni. Mozart, Bach, Vivaldi... Mi sembrava di avere di nuovo uno scopo, una compagnia con cui passare i pomeriggi dopo scuola, ma era finito tutto molto in fretta, con la decisione di iniziare a viaggiare per il mondo, seguendo le spedizioni più disparate. L'amore per le note però, non lo avevo dimenticato neppure nel deserto del Wadi Rum, neppure con una sola tenda a proteggerci dal sole e la sabbia che entrava da ogni cucitura. Se mi sforzavo, mi sembrava di sentirlo persino adesso...

Un rumore sordo mi tranciò i timpani. Acuto, persistente, tanto che impiegai qualche istante, per distendere le mie palpebre socchiuse e per rendermi conto che non fosse affatto il suono di un pianoforte. Era il campanello di casa Parker, che gracchiava l'insistenza di qualcuno appostato fuori dalla nostra porta.

Mugugnai distrutta e rotolai sul fianco per controllare la sveglia sul mio comodino. Bene: erano le sei e ventisette dell'ennesimo lunedì mattina in cui mi svegliavo in una casa che sembrava infestata dai fantasmi, invece che con il mare blu dei Caraibi a cullarmi.

Mi lasciai sprofondare nuovamente sul cuscino, affondando nella sua morbidezza e crogiolandomi nelle lenzuola calde. Avrei lasciato che fosse James a rispondere al campanello. Anche se salvarlo una volta ancora, sarebbe stata la giusta punizione per il mio rientro ben oltre il limite del coprifuoco.

A dire la verità, avevo trovato mio padre addormentato sul divano, mentre la televisione faceva passare l'ennesimo documentario sulle civiltà Azteche, ma non avevo mentito sul mio rientro. No, non avevamo quel tipo di rapporto, noi due. Quello in cui io facevo l'adolescente ribelle e lui impersonava il ruolo di carceriere, tentando di tenermi a casa il più possibile. Sarebbe stato assurdo, con il tipo di vita che conducevamo.

Dal piano inferiore, il ciacolare indistinto di una voce femminile mi fece tendere le orecchie. Avevo una mezza idea su chi fosse, perché quella scenetta si ripeteva almeno un paio di volte la settimana, a partire dal primo giorno in cui eravamo arrivati in città.


«Non è bellissimo, Cassandra?».

La voce calda di James fece scattare il mio viso verso l'alto, costringendomi ad abbandonare gli scatoloni che avevo appena scaricato dalla macchina. Il sole del tardo pomeriggio s'instillava in quell'aria rarefatta, colpendo di netto l'albero di mele sotto cui avevamo parcheggiato e costringendomi a osservare il giardino con le palpebre socchiuse. Quando però riuscii a mettere a fuoco la distesa di terreni coltivati che abbracciavano Chase Street, vidi la città svelarsi di fronte a me.

Danvers.

Danvers, la minuscola cittadina nella contea di Essex. Danvers, un vecchio paesino agricolo del Massachusetts. Danvers, la mia nuova casa.

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora