Prologo

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C'è una crepa in ogni cosa.
Ed è così, che entra la luce.

(Leonard Cohen)

Ho sempre avuto la certezza che qualcosa non andasse in me. 

Come una verità che per tutti brillava alla luce del sole, ma che nessuno aveva osato dirmi. Non provavo le emozioni che avrei dovuto sentire e il mio comportamento non coincideva mai con le aspettative degli altri. Sembrava quasi che la mia anima fosse ancorata all'unico tassello incapace di incastrarsi con il resto mondo.

La mia inadeguatezza mi rendeva fragile. Lo avevo sempre pensato e lo avevo sempre considerato un difetto. Mi costringeva a replicare gesti imparati a memoria, nel vano tentativo di apparire normale. Come se il mio non sapermi adattare gridasse a gran voce quanto fossi difettosa. Era ironico: mi sentivo incompleta proprio io, ma non il resto del mondo senza di me.

C'era qualcosa di sbagliato in me. E non avevo capito cosa fosse, fino a quel giorno.

Guardai gli occhi del ragazzo di fronte a me. Le sue iridi azzurre incollate alle mie. Quanto poteva essere rassicurante, affrontare insieme il maremoto che si era scagliato sulle le nostre vite?

Il problema, però, era che da quel momento in poi sarei stata sola.

Contemplai i suoi movimenti lenti, misurati, mentre impercettibilmente si avvicinava a me. Quegli stessi dubbi che mi colpivano erano riflessi nella rassegnazione che si mescolava finemente ai tratti decisi del suo volto. Non disse una parola, però. Si limitò a spostare una ciocca dei miei capelli, che danzava sospinta da quel leggero vento che increspava lo specchio d'acqua alle sue spalle.

Mi sarei mai abituata a questi gesti da parte sua? Forse neanche avrei dovuto farlo, perché chissà quando ci saremmo potuti rivedere di nuovo.

Quello sguardo, però... Quegli occhi affamati di rabbia, in grado di aggrumare attorno al mio cuore sensazioni così forti da far incagliare il mio respiro in gola, ecco, quegli occhi sembravano incapaci di lasciarmi andare.

A quel punto, fu la mia razionalità a mettere insieme un unico, flebile, sussurro. «Ce l'hanno detto» dichiarai. E sentivo quelle parole bruciare sulla punta della mia lingua, perché non volevano uscire. «Non è destino.»

Però mi ritrovai comunque a serrare le dita attorno alla stoffa leggera della sua maglietta. A non volerlo lasciare andare. A non volerci lasciare andare.

Lui mi riservò quello sguardo intimo, che mostrava unicamente quando eravamo soli. Quello sguardo che sentivo essere mio e di nessun altro, perché apriva i confini di quel tempio inaccessibile che custodiva i suoi pensieri, i suoi ricordi e le sue speranze. Affondò i denti nel labbro inferiore, quasi a voler mettere a tacere le parole che pizzicavano la sua gola. Definitive, implacabili.

«Destino.» Articolò quelle tre sillabe come se fossero un insulto. Qualcosa di spiacevolmente risolutivo, tanto da far traboccare la sua rabbia in una contrazione dura della sua mascella.

«Sai cosa ti porta via il destino, Cassie?» I suoi occhi torbidi erano intrisi dei segreti che ci avevano appena marchiati e che avevano reciso ogni nostra possibilità.

Feci segno di no con il capo, lasciando che le lunghe ciocche dei miei capelli sfregassero sulle mie guance. Non sapevo più nulla ormai.

«La speranza.» Il suo pollice caldo tracciò una linea immaginaria sul mio zigomo. «Ecco cosa ti ruba il destino.»

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora