17 - In maschera (II)

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Regola n. 4 del V.I.
Se ci prendono in giro per il nostro accento, possiamo mandarli a quel paese
(Undici anni, Londra)

«Alexander Case. Non pensavo di incontrarti qui».


Mi voltai di scatto, dimenticando la determinazione, dimenticando i miei propositi. Dimenticando tutto. Le mie aspettative e la speranza di passare inosservati, malamente tenute insieme da una dose d'incoscienza e cattive decisioni, andarono in pezzi senza fare rumore, mentre io me ne stavo lì, su quella scalinata, scrutando allarmata la figura che ci stava raggiungendo.

«Justin» esordì Alex, con tono indecifrabile, mentre un ragazzo dai folti capelli castani recuperava gli ultimi due gradini, per fermarsi di fronte a noi.

Era alto, vestito impeccabilmente proprio come Alex, ma diversamente da lui esibiva un sorriso tanto ampio quanto... finto.

Se avessi avuto il vizio delle scommesse, avrei puntato tutti i miei soldi sul fatto che quel ragazzo fosse l'ultima persona che Alex avesse sperato di incontrare quella sera. Perché nonostante l'inflessione calma con la quale aveva pronunciato il suo nome, tutto il suo corpo si era irrigidito di una tensione nervosa, che sembrava mettermi in guardia dalla persona di fronte ai miei occhi.

Nel frattempo, il nostro interlocutore aveva tolto la maschera, rivelando le fattezze un po' fanciullesche di un ragazzo dai lineamenti morbidi, induriti solamente da un paio di occhi azzurri, vagamente simili a quelli di Alex.

«Sono Justin» si presentò. Continuava a sorridermi in un modo che non m'interessava, e che inevitabilmente stava trasformando anche la mia espressione in una smorfia totalmente finta. «Suo cugino» aggiunse poi, avendo probabilmente notato il modo assorto con cui avevo analizzato i suoi tratti prima. Occhi a parte, non aveva un briciolo del fascino severo di Alex.

«Cassandra» replicai, accennando un sorriso tirato e rimanendo ben piantata a qualche metro da lui.

Justin mi fissò per un istante di troppo, in un modo così evidente che registrai le mie spalle sporgersi lievemente indietro, nel tentativo di farmi lasciar andare. Proprio in quel momento, Alex si mosse attirando nuovamente l'attenzione del cugino.

«Come mai qui?» gli chiese con tono noncurante, infilando la mano libera nella tasca dei pantaloni.

Justin ci osservò ancora per un istante, passando dai nostri volti coperti dalla maschera, fino alle nostre mani ancora intrecciate. «Dovrei essere io a farti questa domanda» replicò lui, sollevando gli occhi sul cugino e scrutandolo con un'intensità tale da sorprendermi. Se non lo avessi creduto impossibile, avrei detto che Justin non fosse stato solamente sorpreso della presenza di Alex. Sembrava genuinamente a disagio, come se qualcosa gli sfuggisse.

Alex dal canto suo non apparve minimamente colpito da quel cambio di direzione. Lo vidi accennare un gesto distratto con la mano, per niente preoccupato per quelle parole.

«Delega di mio padre» rispose evasivo. Avevo dimenticato che stavo affrontando quella serata con il re delle risposte elusive e dei comportamenti sfacciati e per la prima volta mi resi conto che quella sua capacità poteva essere una risorsa anche per me. «Piuttosto, com'è finita in Australia?» aggiunse con un ghigno.

Justin si passò una mano tra i capelli e scorsi una punta di imbarazzo nel sorriso amaro che si dipinse sul suo volto. «Abbiamo fatto a botte con i locali e siamo finiti una notte in prigione» disse con un filo di arroganza, come se quelle parole pareggiassero in qualche modo i conti.

IGNIWhere stories live. Discover now