6 - Incontri (I)

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La campanella era suonata da un pezzo. Nei corridoi restavano solamente gli ultimi ritardatari, che si affrettavano a raggiungere i laboratori o gli spogliatoi della palestra, con le tracolle strette in pugno e il passo veloce. E poi c'ero io. Io, che non stavo più capendo da un pezzo ciò che mi passava per la testa. Sempre io, che avevo finto di dimenticare un libro sul tavolo da picnic solo per ritornare in mensa.

Svoltai tra i tavoli candidi, mentre un odore di disinfettante mi riempiva le narici. In quella scuola erano efficienti all'ennesima potenza. Dieci minuti erano bastati affinché le sedie fossero state raccolte sui tavoli e i cestini svuotati. Guardai le mie scarpe bianche, che portavano ancora i segni del mio pranzo all'ombra di un grosso albero di mele, con qualche residuo di polvere e di terra che scappava dalle suole consumate. Se mi avessero beccata in quel momento, avrei potuto dire addio alla torta al cioccolato per i prossimi sei mesi.

Prima di essere ripresa da uno degli inservienti, mi infilai dietro il separé che conduceva alla porta d'emergenza. La feci scattare, socchiudendo le palpebre per la paura che l'allarme iniziasse a suonare. Tutto però rimase immobile, abbastanza tranquillo da spingermi a superare la soglia.

All'esterno gli strascichi d'estate erano ancora presenti nella luce piena che s'insinuava tra i rami degli alberi e che colorava di macchie più chiare l'erba del giardino. Solo la brezza fresca e pungente mi ricordava che ormai avessimo superato da un pezzo l'inizio di settembre, e che il Massachusetts non fosse esattamente alla stessa latitudine del Messico.

Rabbrividii nel mio maglioncino, stringendo le dita attorno all'elastico morbido dei polsini e, mentre mi affrettavo ad abbandonare quel vialetto di terra battuta, mi chiesi distrattamente cosa mi avesse spinta a farlo. Cosa mi avesse fatto credere di dover tornare in quel posto, saltando senza remore la lezione di francese. Eppure, quando le mie scarpe incontrarono il terreno morbido e instabile, e le mie caviglie furono solleticate dai fili d'erba, ci misi un solo istante a individuarlo.

Alexander Case, lo stronzo che si era preso gioco di me, se ne stava ancora seduto su quel tavolino, con i piedi piantati sulla panca e la mano destra infilata tra i capelli. Sempre con una sorta d'indifferenza per ciò che lo circondava, sempre con quell'aria stanca e annoiata. Almeno a giudicare dalla posa che aveva assunto, con gli avambracci appoggiati alle ginocchia e i riccioli scuri che ricadevano sulla sua fronte. Non mi sarei lasciata intenerire da quel dettaglio, però.

Iniziai a marciare verso di lui, mentre i tasselli di ciò che avrei voluto dirgli s'incastravano in modo sbagliato nella mia mente: perché diavolo mi hai presa in giro? Perché diavolo non mi hai detto che fosse casa tua? Cosa diavolo è successo, quando eravamo in quella stanza? Perché diavolo mi hai cercata oggi?

Tutte domande legittime che però dimenticai quando sollevò il capo. Mi osservò sfilare nella sua direzione, con le labbra pinzate tra indice e pollice, mentre il suo viso rimaneva indecifrabile. L'unica certezza era che non sembrava affatto sorpreso di vedermi lì. E forse io, a quel punto, mi sentii un tantino meno idiota a essere tornata in mensa per parlare con lui.

«Carina casa tua... mmh» iniziai. Stavo per aggiungere il suo nome, facendogli notare che ormai sapevo chi fosse, quando realizzai che forse non volevo dargli quella soddisfazione.

«Alex» completò lui. Spense una sigaretta che non avevo notato nel posacenere alla sua destra, prima di tornare a guardarmi. «Ti ringrazio, Cassandra Reed».

Piegai di poco il capo con uno sguardo infastidito. Lui non si era minimamente posto il problema di nascondere quanto sapesse su di me.

«E posso sapere cosa stavamo festeggiando ieri?» chiesi con tono polemico. La mia combattività era messa a dura prova dal fatto che stessi letteralmente gelando, ma mi limitai ad incrociare le braccia al petto. Non mi sarei tirata indietro.

IGNIWhere stories live. Discover now