26 - Pessime similitudini

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A nord di Inverness, nelle Highlands scozzesi c'è una vasta area chiamata Culbin Forest. Una distesa di tronchi slanciati e corteccia granulosa.

Mio padre mi portò lì per la prima volta quando avevo dieci anni. Mi aveva raccontato che gli alberi che crescono in quell'area resistevano a condizioni ambientali avverse. Come geli improvvisi e lunghi periodi di siccità.

Ricordo di averli guardati con ammirazione, perché erano quanto di più forte avessi mai visto: loro non si lasciavano spaventare dagli improvvisi cambiamenti climatici, ma restavano solidi di fronte alle avversità. Quel giorno, sperai con tutto il cuore di diventare come loro. Di crescere, e diventare betulla.

E fu allora, con la punta del naso ancora rivolta verso l'alto, che vidi per la prima volta due vivaci occhi marroni e un peloso ciuffo rossiccio. Lo scoiattolo mi guardava muovendo spasmodicamente la coda arruffata, mentre stropicciava le zampe contro una grossa ghianda lucida.

Hanno una strana abitudine gli scoiattoli. Nascondono le loro scorte in piccole cavità segrete, disseminando il terreno di piccoli tesori difficili da scovare.


«Non te lo dico neanche come stai guardando mio cugino. Ho i brividi, giuro.»

Fu come uno schiocco. Il rumore metallico di un'anta sbattuta mi fece trasalire e nelle mie iridi si riversò una nuova gamma di colori e di forme, che dissolse i contorni di quel sogno naturalistico, permettendomi di mettere a fuoco l'ambiente che mi circondava.

Non ero più nelle Highlands scozzesi, dove la mia memoria mi aveva portata, ma nell'atrio rumoroso della Churchill Accademy, sballottata tra chiacchiere allegre, un brusio diffuso e sporadici schiamazzi acuti.

Caleb e Matt erano davanti a me, a qualche metro di distanza, intenti a prendere alcuni libri dai loro armadietti. Si stavano passando alcuni fogli, ridacchiando mentre le loro mani stropicciavano gli appunti con ben poca cura, perché, a giudicare dai loro volti, sembravano troppo concentrati sui loro discorsi, per rendersi conto delle loro azioni.

La mia mente li aveva davvero paragonati a un paio di scoiattoli scozzesi?

Prima che potessi rispondere a quell'interrogativo, il mio campo visivo fu improvvisamente oscurato da un paio di occhioni verdi e lisci capelli neri. Alice si era parata di fronte a me, costringendomi a muovere un passo indietro e a staccare gli occhi da quella scena.

«Scusa?» le chiesi cercando di recuperare il filo del discorso.

Avevo la netta impressione che avesse parlato a intermittenza come suo solito, ma per il mio cervello sembrava impossibile concentrarsi su qualcosa di diverso dai due ragazzi appoggiati al capo opposto della stanza.

Alice si disfò velocemente dall'impiccio di dovermi rispondere. Mi abbracciò con trasporto, premendo le sue esili braccia attorno alle mie scapole. «Sono così contenta di vederti!» pigolò. «Ho saputo che eri malata! Stai bene ora? Ricordati di non mangiare il pollo in mensa! Dio solo sa, quanti giorni ha visto quella cella frigorifera prima di essere cotto.»

Mi lasciai cullare da quella cantilena, entrando con lei nell'aula di fisica. Nonostante fosse sempre difficile stare dietro ai suoi discorsi, Alice aveva la rara qualità di non farti sentire mai solo, ed era fin troppo facile abituarsi alla sua presenza.

«Alice, cosa ne pensi di sabato?» chiese Dean sedendosi al tavolo di fronte a noi. Il suo sguardo luccicava di un soffio di speranza che con ogni probabilità sarebbe stato spazzato via immediatamente.

Lei si guardò attorno, riflettendo per un po' con un'espressione concentrata. «Sabato?» ripeté aggrottando le sopracciglia. «È tra il venerdì e la domenica» rispose candidamente. Un sorriso finto come una banconota da sette dollari stampato in viso, e una scintilla di divertimento incastonata tra le palpebre socchiuse.

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora