40 - L'effrazione (I)

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Una delle cose più dure nella vita è avere parole nel tuo cuore che non puoi pronunciare
- James Earl Jones

Tamburellai le dita sul tavolo in legno della mensa ripetendo mentalmente il discorso che mi ero preparata.

Una volta ho letto che i bambini bilingue sviluppano una migliore capacità di multitasking perché il destreggiarsi tra diversi idiomi crea un mutamento strutturale all'interno del loro cervello.

Non so se fosse l'ennesima trovata per spingere James a iscrivermi alla scuola internazionale, ma se fossi sopravvissuta all'incontro con Alex, mi sarei dovuta ricordare di ringraziarlo meglio.

Quel giorno infatti i miei pensieri sembravano in grado di scorrere su due binari distinti. Da una parte tentavo di collegare tutto ciò che in queste settimane avevamo scoperto sui medaglioni, dall'altra ero impegnata in una lotta interna per giustificare il mio comportamento impulsivo con Alex.

Non avevamo bisogno di complicare le cose, ma fare finta di nulla sarebbe stato l'ennesimo tentativo di fuga da parte mia. E stavo cercando di diventare una persona più responsabile. O quantomeno, volevo provarci.

Versai lo zucchero nel caffè, osservando il cumulo di granelli scivolare con lentezza inesorabile verso il fondo, mentre alcuni di essi iniziavano a sciogliersi in superficie, sperando con tutto il cuore di non ritrovarmi a fare la stessa fine dei primi.

Un'ombra scura si proiettò sul tavolo. «Come sta il tuo stomaco?» Dean fece ciondolare il caschetto dei Falchi con un sorrisino impertinente stampato in volto.

Lo guardai torva. «Bene grazie.» Il mio tono incerto fece suonare quelle parole più come una domanda che come un'affermazione. Ma perché diavolo mi stava chiedendo del mio stomaco? Una terribile sensazione si fece strada nel mio petto. Possibile che avesse visto tutta la scenetta dei numerosi bicchierini di tequila?

Si sedette sul tavolo, appoggiando le scarpe alla sedia accanto alla mia. «Non sembrava che stessi molto bene l'altra sera» rispose confermando la mia ipotesi. Solo in un paesino piccolo come Danvers potevamo ritrovarci tutti nello stesso buco di bar. 

Nascosi il mio sguardo imbarazzato nelle pieghe del mio maglione, ma alla fine lo riportai all'altezza del suo viso. «Eri solo?» articolai con la consapevolezza della sua risposta negativa. Era raro che i membri della squadra di fooball non si muovessero in gruppo.

Bevve un sorso di caffè. «Beh, c'erano tutti i Falchi, a dire la verità» chiarì, alzando le spalle come se fosse scontato.

Ed ecco spiegato perché era stato proprio Caleb a riportare me e Alice a casa, anche se ancora non riuscivo a capire perché Alex si trovasse con loro. Faticavo a immaginarli come due buoni amici che dividevano una birra insieme. Almeno, senza la tentazione di strangolarsi a vicenda.

Prima che potessi chiedergli altre informazioni però, Dean riprese a parlare. «E da quello che ho visto, non eri sola neppure tu» sussurrò alzando lievemente il volto e guardando oltre la mia spalla.

«Cosa...» abbozzai imbarazzata, ma Dean era già saltato giù dal tavolo.

Fece un occhiolino esagerato, prima di allontanarsi di qualche passo. «Sarò muto come un pesce, promesso.» Il suo sguardo continuò a concentrarsi oltre la mia figura mentre raggiungeva la porta laterale.

Voltai il capo e vidi Alex avvicinarsi con la sua solita aria rilassata. C'era qualcosa nell'espressione che assumeva quando camminava tra i corridoi della scuola che mi rendeva irrequieta. Come se la sua abilità nel mentire, nel nascondere a tutti i problemi che portava dentro, lo rendesse ai miei occhi più pericoloso di quanto non fosse.

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora