19 - Il preside Evans

10.9K 471 892
                                    

Regola n. 6 del V.I.
Se il viaggio dura più di cinque ore,
si prende l'aereo
(Tredici anni, Cancun)


Nel corso della nottata ero giunta ad un'unica conclusione: Caleb sapeva che avevo mentito. Non trovavo altra spiegazione per il messaggio che mi aveva mandato, e il mio stomaco si stava torcendo per il senso di colpa e l'imbarazzo.

C'era qualcosa di terribilmente sbagliato nel tempismo con il quale provavo rimorso. Avevo iniziato a dispiacermi solo nel momento in cui avevo letto le sue parole. Come se il mio cervello dovesse essere sollecitato, per provare emozioni normali.

Credo che una buona dose di colpa dovesse essere imputata a James. Mi aveva cresciuta con l'ottica libertina del non chiedere mai scusa, se le mie azioni erano volte a inseguire i miei desideri. Eppure, persino io con i miei diciassette anni di limitate esperienze e rapporti umani incostanti, sapevo che c'era qualcosa di sbagliato in quell'approccio. Soprattutto quando la vita non si riduceva più solamente a noi due, ed era... strano. Strano perché avevo l'impressione che Danvers si stesse pian piano insinuando dentro di me, modificando in maniera sottile i miei pensieri e i miei comportamenti. Di sicuro, quella cittadina stava diventando più importante delle molteplici mete che l'avevano preceduta, e la cosa mi agitava.

Scesi le scale fino al salone con una sensazione di disagio che mi vorticava nello stomaco, ma sapevo di dover accantonare quei pensieri. Avevo dormito quattro ore scarse e ancora non avevo deciso che scusa utilizzare con Caleb.

Ero talmente concentrata sul mio senso di colpa, su come liberarmi di esso, che raggiunsi la soglia della cucina senza neppure rendermi conto del profumo di caffè che aleggiava per tutto il piano inferiore.

James era appoggiato con la schiena all'isola in quarzo. Una tazza stretta tra le dita e le braccia incrociate in una posizione rigida da combattimento. Una posa del tutto innaturale per mio padre, tanto che per un istante mi sentii frastornata dalle ondate di tensione che s'irradiavano dal suo corpo.

«Buongiorno» biascicai, fermandomi sulla soglia e coprendo un piede con l'altro, per trattenere il calore.

Al mio saluto, James sbuffò. Sbuffò e la cosa mi destabilizzò così tanto, che sgranai gli occhi e studiai il suo viso perfettamente familiare come se fosse il prodotto di qualche forma di vita aliena. Perché se James sembrava lo stesso di sempre, il suo cipiglio severo era quanto di più strano avessi mai visto. Da quando aveva abbandonato il suo atteggiamento mite e perennemente allegro?

La risposta arrivò un istante dopo.

«Dov'eri? Con chi eri? E soprattutto perché sei tornata così tardi?».

James non aveva neppure aspettato che agguantassi a mia volta una tazza di caffè per vomitarmi addosso quella lista di domande. Domande che per altro richiedevano una buona dose di bugie. Raccontargli dove ero andata? Era escluso. Con chi fossi? No, Alexander Case doveva rimanere uno sconosciuto per mio padre. Mentre la ragione per il mio rientro ben oltre la mezzanotte era fin troppo legato alle prime due bugie per non chiedermi di mentire ancora.

Mi spostai fino al frigorifero, dove aprii l'anta e feci scorrere gli occhi tra gli avanzi del cibo cinese e la brocca con il succo d'arancia. «Ero a bere qualcosa con dei compagni di scuola e non era previsto che facessimo così tardi.» Continuai a tenere lo sguardo piantato sulle uova strapazzate e il bacon ancora da friggere. «Scusa, abbiamo perso la cognizione del tempo» aggiunsi.

Mi era costato molto chiedere scusa a James. E non perché fosse giusto farlo preoccupare, ma perché di solito i nostri spostamenti non erano oggetto di una così attenta analisi. Mio padre era lo stesso uomo che partiva e mi lasciava a casa da sola per due o tre giorni, ogni volta che qualche convention lo spingeva a prendere un aereo e a visitare qualche nuovo Paese. Quindi, cosa era cambiato rispetto a prima?

IGNIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora