Capitolo 32.1

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                                 Rosa dei venti

L'incisione di un argentiere.

Era stata lavorata sul fronte di uno dei due enormi pinnacoli di roccia che, paralleli l'uno all'altro, si elevavano ciascuno su un lato di quel sentiero accidentato, su cui dovevo essere finita dormendo.

Volevo decifrarla.

Non sapevo che ore fossero giù, a Fiesole, ma le lancette degli orologi dovevano camminare in un arco notturno, mentre io mi muovevo attraverso un grandioso polverio molto più su, lontana dalla Terra.

Leggerla era complicato, sopportavo bene il calore che dal grezzo sottosuolo prendeva le mie gambe, arpionandomi fino alla punta dei smossi capelli, ma strizzavo ancora gli occhi troppe volte per le continue capovolte dell'aria.

Ero arrivata lì dal sonno, e nonostante ciò, mi sentivo più sveglia che mai, intenzionata a raggiungere un punto mezzano tra i due picchi rocciosi per osservarla meglio, come una studiosa di storie e di grafie.

Ezvorat ilil rihinuen

«Conosci il Tarkh?», una voce maschile irruppe al mio fianco, facendomi ritirare per riflesso le dita che avevo appena avvicinato alle lettere incise.

Un secondo dopo mi annullai in un verde insinuante, incuriosito di due occhi, che dentro ciglia nere, gemmavano un viso dall'incarnato pallido, come i miei pensieri di vetro satinato in quel momento.

Emar attese che trovassi le parole con pazienza, restando perfettamente calmo a guardarmi dalla mia sinistra, mentre l'impeto dell'aria sferzava, impolverandolo fino a farlo sembrare un selvaggio dei deserti dalla zazzera scura.

«Tarkh?» ripetei.

«La lingua del popolo delle stelle», specificò, spostando lo sguardo da me all'incisione color dell'argento che segnava la roccia, aggiungendo: «Il ragazzo per cui sei qui non te l'ha insegnata?»

«Ah, no», risposi solo, assentandomi, la memoria che cadeva nelle braccia di uno Zeno dalla quasi totale nudità, che mormorava parole non appartenenti ad alcun vocabolario terrestre.

«Ezvorat», lasciò in sospeso, con una cadenza che risultò suadente, per me che non avevo mai ascoltato tale lingua se non con lui. «Significa rosa. Ilil rihinuen... dei venti.»

Rosa dei venti.

Gli occhi smeraldini di Emar incrociarono i miei, osservarono attentamente il mio apprendimento, e la mia reazione a un qualcosa che non riuscii a capire.

«Tu non sai», constatò, con un tono neutro, rigirandosi subito dopo di profilo.

«Non so, cosa?»

«Dove ti trovi, per esempio», rispose, indicando con la mano qualcosa oltre i pinnacoli, la strada che spariva in un annebbiamento polveroso, non lasciando intravedere altro riferimento.

Non potevo ribattere, non sapevo con precisione dove mi trovassi, soltanto che dovevo aver messo piede su Saiph, mentre un'altra versione di me stava dormendo nel suo letto in Italia.

«Sei a Rosa dei venti, uno dei Quattro Territori», disse, anticipando la domanda che mi stava portando a fargli con le sue mezze affermazioni. «E anche la volta che mi hai conosciuto eri di passaggio qui. Pensavo almeno questo lo sapessi.»

«Veramente no», ammisi, abbastanza demoralizzata per non aver mai sentito parlare Zeno della mia stella, sua casa di origine.

Voci e schiamazzi si rincorsero in un orizzonte che dissipava sagome, ma nessuna di quelle si avvicinò per partecipare al nostro incontro, lo stesso Emar ne fu distratto per alcuni secondi.

Saiph - La mia stellaWhere stories live. Discover now