Capitolo 33.2

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Polvere interstellare e vuoto.

Il suo viso era impavido, mentre si lasciava andare sul baratro cosmico al di là della cresta rocciosa su cui era, su cui eravamo insieme.

Avevo saltato anche io, e già non lo vedevo più, percepivo solo l'oscurità dello spazio che mi inghiottiva, e le sue dita arrivate a saldarsi attorno al mio polso, ma la sua voce, riuscivo a udirla con fastidiosa chiarezza, nel frastuono di un vento che mi trascinava.

Elias stava dicendo di non agitarmi.

Strinsi la stoffa di Zeno, serrando le mani a pugno, come a cercare di avere un appiglio con il presente, come a tentare di non essere portata via anche io, attraverso quello che doveva essere un suo ricordo, che la nostra magia di scambio mi stava aprendo.

La sensazione di precipitare in due, di un pianeta ignoto da toccare insieme, mi stava monopolizzando i sensi, e non bastava la certezza di non essere sola, mi sentivo abbandonata a me stessa, nella scoperta e nella novità di una vita diversa e pulsante, al di fuori di Orione.

Cadevo dalle braccia dell'universo, il suo buio e la sua luce catturati in frammenti dalle mie pupille, che cascavano anch'essi con me, portati sempre più giù, fino a una attesa e rivoluzionaria collisione.

E quella mano che mi teneva, era ferro ed era aria, era forza ed era direzione, bucava atmosfere, superava gas, sfidava senza più forma di ragazzo dagli occhi impolverati lo spazio, facendosi collante tra la nostra vecchia e nuova casa, tra chi eravamo stati e chi saremmo diventati, per incarico, per Lei, per Loro.

Zeno mi sorresse, quando le mie gambe tremarono, per la paura e l'adrenalina di quella sua caduta che stavo vivendo nella testa, sentendo come se la sua durata potesse riprendere anche una volta finita.

Era il precipizio più spaventoso e allo stesso tempo perfetto che avessi mai visto, mi serrava la gola, mi schiacciava lo stomaco, mi svigoriva di energie, facendomi cedere a lui abbracciata al mio Lie, che vi si era buttato per dovere dall'alto.

Stringhe luccicanti legavano i nostri corpi, ammorbiditi nel conforto della grande vicinanza, fissandosi intorno a noi, elettrizzando l'anonimato di quella via, come ruotanti cariche di lampi e fulmini, dalla potenza autorigenerante.

Dal pieno centro dell'Ellisse, il ragazzo era impreziosito più dell'oro che aveva fatto comparire per me nella grotta del Montececeri, il biondo dei suoi capelli così ricco, regale, le sue iridi così radiose, come rifiniture verdi- azzurre di uno scettro.

Mi concentrai sul suo viso, sull'incoercibile nero e sul pallido rosa, che su di lui si sposavano in una comune promessa di astrusa bellezza, un matrimonio tanto irresistibile quanto maledetto, a cui il mio mondo poteva non essere all'altezza di fare da testimone.

Zeno si piegò, tanto da arrivare ad appoggiare il mento sulla mia spalla, facendomi sospirare, e soltanto quando mi prese per le cosce, sollevandomi tra le braccia e poi curvandosi di nuovo con me, capii che lo aveva fatto per portarmi a sedere a terra.

A quel gesto deciso, non distinsi più se la sensazione di nulla assoluto sotto di me, di perdita nel vuoto eccitante e inarrestabile, fosse dovuta al suo ricordo di attraversamento dello spazio, che stavo vivendo, o a qualcos'altro.

Ero semidistesa sul sentiero, ancora in simbiotico contatto con lui, che mi guardava da vicino, inginocchiato su una delle sue gambe, tra le poderose luminescenze della nostra magia, che spingevano il colore della notte.

Sapevo che sarebbe stato meglio allentare la stretta dietro la sua schiena, che lo teneva abbassato, e rilassarmi prendendo maggiore coscienza dell'adesso, della stabilità dell'asfalto su cui ero stata messa da lui, avendo intuito una mia difficoltà a stare in piedi.

Saiph - La mia stellaWhere stories live. Discover now