Capitolo 22.2

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La corteccia soffre, una linfa ambrata riempie l'incisione come sangue, straborda dall'orlo e cola in basso, si sparge su schegge scure, pendendo in filamenti che, al sole, raggrinziscono in gemme di sottobosco.

L'oscurità di Zeno era il mio pegno per amare.

La felicità che mi era stata promessa da Saiph non aveva scappatoia, avrebbe tatuato un ragazzo fino all'ultimo centimetro di pelle, lo avrebbe trasformato in un notturno senza luci.

L'aria portò qualche goccia sulle mie ciglia, e sulle sue labbra piene, inumidendole; un accenno di pioggia che cessò subito, evaporando nel mio respiro.

La forma della sua bocca aveva ora l'umidità caduta dal cielo a baciarla, come se lo stesso universo avesse voluto sentirla.

Oh come mi sarebbe piaciuto essere la molecola d'acqua che gli percorreva il rigonfiamento delle labbra, bagnarlo di me e sostare, trasparente, una volta in più su di lui.

Zeno seguì il mio sguardo onirico, la sua mano si posò sul dorso della mia, sprazzo di notte sul chiarore della mattina, e io rabbrividii, cercando i suoi occhi effervescenti.

Erano intagliati in un viso che avrebbe reso per sempre le mie sere insonni, trastullata nel pensiero di come avrebbe potuto essere averlo tra le coperte, ancora una volta.

Per quel blu e quel verde, avrei voluto essere una inventrice, costruire un Acchiappasogni su misura, scacciare con quello i desideri neri che aveva tatuati sul suo corpo, anche se erano i miei.

Infine, il mio cervello si spense; il suo tocco si trasformò in un massaggio lento, accorto, di terra libera e di delicate stelle, e la mia pelle reagì accapponandosi.

Mi sporcò proprio come lo era lui, scurendomi la mano destra, e io lo lasciai fare senza spostarmi, in gola un groppo che non riuscivo a mandare giù.

Mi voleva marrone, come la natura che aveva accolto la nostra coperta, come fogliame e terriccio rimestato, mi faceva sentire desiderabile più di quanto non fossi quando ero pulita.

Sentii il frusciare delle chiome degli alberi, il battito di ali di uno stormo di uccelli, il vociare dei partecipanti alla lezione, e mi chiesi come dovessero sembrare a lui, abituato al silenzio delle galassie.

Un adagio di vita.

Ritirò la mano, lasciandomi senza più pensieri in testa, un guscio vuoto, e nel farlo non distolse i suoi occhi dardeggianti dai miei, quasi si tenesse pronto a rimetterla dove era, a un mio cenno.

Era estenuante l'energia che si consumava tra noi, stava facendo schiantare qualcosa dentro di me, con forza, la tentazione di cedere e la necessità di resistere.

«Vorrei il foglio che hai pitturato.» ammisi, mio malgrado, in un tono fievole, che non rispecchiava per niente il mio schianto emotivo.

«Solo quello?» replicò.

Non risposi. Tenere quel pezzo di carta tra le dita, vedere i riflessi oscuranti nell'azzurro così nitidamente, mi fece sentire il peso del mio scontro interiore. Vittoria o sconfitta, due sinonimi.

Non riuscii più a evitarlo, a celare ai suoi occhi quanto fossi esasperata dall'oscurità della sua magia; non sollevai nemmeno le forbici, anche se scintillavano d'argento vicino a me.

Strappai subito il foglio a metà, uno strappo secco di colori, che fece sussultare Zeno, attonito, e lo portò a schiudere quella meraviglia di labbra.

Lo feci ancora, e insieme alla carta sdrucii la mia impossibilità di veder esaudito il mio ultimo desiderio, la mia scelta di non permettermi di amare, e perfino tutto quel buio che avevo inconsapevolmente alzato su di lui.

Saiph - La mia stellaWhere stories live. Discover now