Capitolo 39.1

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                                          Apogeo

Una volta mi hai detto che esiste un punto di massima distanza dalla Terra di un'orbita chiusa intorno a essa, e che il suo nome è apogeo. Credo che lo sto per vivere, nonno, e non ho più te a tenermi la mano.

Qualsiasi minuto poteva diventare il mio apogeo. Non sapevo quale lo sarebbe stato, non lo avrei neanche voluto sapere, ma era una ignoranza che non faceva bene alla mia concentrazione.

Ero appena stata ripresa per la mia lentezza, mancando una persona alla Bottega, e nell'attesa dell'arrivo di un'altra, era richiesta una maggiore efficienza, che non ero al momento in grado di dare.

Fissavo il gelsomino che mi aveva pagato una cliente, pensando che tutto il suo sprizzante giallo stonasse con la mia disposizione, che non avrei dovuto occuparmene io, che fosse addirittura nauseante.

Uno dei suoi significati era la felicità, un concetto soggettivo, ciclico, che poteva sfiorire prima di quanto avesse impiegato a fiorire.

«Era una critica ingiusta.»

«No, invece non lo era», mi sincerai con Emma, rendendomi conto che se esisteva un periodo migliore in cui avrei dovuto fare di più per distinguermi nel mio lavoro, era proprio questo.

«Se lo dici tu. Che problema avevi con quel fiore?» s'interessò, quando la donna che lo aveva comprato lasciò, perplessa, la cassa per uscire.

«Mi ricorda quello che non sono», risposi, mettendomi la giacca che mi aveva gentilmente passato dall'attaccapanni, e senza spiegare che cosa avessi voluto dire, dopo una rapida occhiata scambiata, uscii anche io per una pausa.

Non sono felice.

Quel pensiero sopravvisse nell'oscurità di un paio di occhi che fissavano la porta del negozio dall'altro lato della strada, come se avessero bramato di varcarla un milione di volte da quando avevano guardato altrove.

Era lo sguardo con cui adesso ero considerata nella mia inaspettata uscita, le iridi come un mosaico di scaglie in ardesia nera, che accarezzavano le giunture del mio corpo, facendomi sentire trovati e provocati persino punti di cui non ero conscia.

Il viso alabastrino di Elias era come la visione di un sogno che poteva nascondere un incubo, l'assoluta ambiguità del suo passaggio, la confusione nella percezione di uno e nell'arrivo dell'altro.

La mia infelicità volgeva nella sua, scoprendo nella distanza linee di incontro vere, che ricamavano il sollievo di averlo visto, e la scelleratezza di volerlo raggiungere senza fare caso all'attraversamento pedonale.

Il semaforo era rosso, ma la connessione che si era stabilita tra noi era incolore, non seguiva altro che sé stessa, un intemperante impulso a non essere fermata.

Lasciai passare una macchina, e nonostante ne stesse arrivando un'altra a velocità moderata, mi buttai, richiedendo una precedenza che non avevo, e che mi fu subito segnalata con un colpo di clacson.

Elias sembrò preoccuparsi fino a quando non salii sul suo stesso marciapiede, davanti a un'occhiata volutamente prolungata della persona alla guida, a cui non diedi peso in confronto a lui, in seguito mi fissò come se lo avessi potuto portare a non rispondere delle sue azioni.

«Lo sai che a fare cose sbagliate, mi fai pensare a tutte quelle che potrei fare io, vero?» mi fece presente, quando gli fui di fronte, ansimante per la fretta di avvicinarmi a lui, per il rischio affrontato in strada.

«Questo momento non tornerà più indietro», fu la prima frase che mi venne in mente, e si stupì più lui nel risentirla di quanto non lo fossi io nel dirla, perché non era più la sua, ma la mia. «Tu, sì?»

Saiph - La mia stellaWhere stories live. Discover now