Capitolo 2.1

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Agguato

Voglio riempirmi gli occhi di Bellezza e di stelle.

Salvare una vita.

E amare.

«I miei...»

Un colpo di canna, era il battito del cuore impennato, il fiato esalato sulla carta imporporata dai fanali di un'auto in passaggio. La voce si affievolì, girando in labirinti d'infanzia, non trovando più una via di uscita dai momenti che stavo ricordando, mentre leggevo e rileggevo quelle righe stese nel biglietto.

Appoggiai una spalla contro un muro, abbandonandomi a una silenziosa presa di coscienza, continuando a seguire con occhi sgranati il fluire dell'inchiostro in arabeschi grafici riconoscibili come miei, che articolavano quelle stesse parole. Perfino l'ordine in cui erano state scritte coincideva con quello che avevo scelto io.

Assurdo. Improbabile.

Uno sconosciuto incappucciato e forse sciagurato, dagli occhi di due colori diversi, era saltato fuori dalle ombre a un raduno di clochard, e mi aveva restituito l'esatta copia dei desideri che avevo espresso in compagnia della nonna.

Una replica.

Doveva essere per forza così, perché non poteva essere proprio quello scritto da me a dieci anni. No, non poteva esserlo. O forse... sì? Mi tremarono le dita al pensiero, il foglio si mosse con loro, rischiando di scivolare nel degrado della strada, di essere ripreso dal tempo da cui pareva essere stato graziato.

«Non ci credo.»

Quella sera alla terrazza l'avevo lasciato su una panchina, chiunque avrebbe potuto appropriarsene, ma ammettendo che il misterioso ragazzo lo avesse preso con sé da bambino, perché avrebbe dovuto conservarlo per quindici anni e come avrebbe fatto a sapere che lo avevo scritto proprio io?

Mi gira la testa.

Era come essere bloccata nel punto più alto di una montagna russa, all'inizio della ripida discesa nell'ignoto, che per me aveva il colore strabiliante delle iridi di quell'estraneo.

Il verde e il blu di minerali ricercati, raffinati, in un mondo di delinquenza, che parevano essere in grado di riconsegnare il passato sul palmo di una mano.

Stavo per precipitare.

                                                                        ✴

Bianco, come un petalo di neve, sfiorito in vapore. Nuvole a corolla aleggiate su un vetro cavo, rendono i miei occhi albini, per il tuo nome mancato.

«Sei saltata sul Carro, Ester?» mi fece trasalire la Signora Berti, studiandomi con un'espressione sconcertata, prima di posare sul mio ripiano la velina che mi aveva chiesto di prendere prima di sfilare alcuni gambi dall'acqua.

Mi riscossi dal femmineo candore della pianta su cui avrei dovuto lavorare da almeno cinque minuti, il Lisianthus, ma che aveva, invece, sbiancato i miei pensieri fino quasi a farli sfumare nel nulla.

«No, l'ho lasciato andare», risposi a tono, cercando di mostrarmi nuovamente reattiva, mentre Elias si avvicinava diretto su di lei, con occhiata torva, rivolgendole poi una domanda che la distrasse su altro, proprio nel momento in cui avrei davvero voluto essere su quattro ruote in corsa.

Il Lisianthus era noto agli inglesi come "Carro di Venere", così ci era stato insegnato; pensavano potesse portare via con un sol sguardo, facendo salire coloro che lo osservavano alle altezze di una amorevole divinità.

Saiph - La mia stellaWhere stories live. Discover now