Capitolo 24.2

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Orologiaio al lavoro sui suoi quadranti, il cielo aveva appena invetriato l'aurora.

Accenti di luce e di platino in tempere fredde erano trasposti negli occhi di Zeno, i colori di un planetario in una cupola cinerea.

Lacci annodati intorno alla mia gola, alla vista di un raggio di sole sulle sue sopracciglia, ora linee di un astrolabio d'oro, in grado di localizzare la luna e le stelle in quella mattina nascente.

Lo sguardo all'insù, di inesplicabile cromatura, era un portale dell'universo che avrei voluto attraversare, un anelito di luminescenza per l'ombra dei miei desideri.

«Non ti piacciono?» mi chiese, muovendo appena le labbra, accorgendosi che stavo guardando lui, e non i singolari speroni di pietra che gli avevo chiesto di portarmi a vedere a Zone.

I Camini delle Fate si ergevano sopra di noi, guglie coniche nella boscaglia, irregolari punte di roccia erose dalla pioggia e dai detriti morenici, innalzate fino a sfiorare la vetrata del cielo.

Sulle loro sommità, grossi massi piatti parevano assorbire i colori dell'alba, farli scendere giù dai pinnacoli, per donarli ai nostri occhi avidi di natura.

«Sì, molto.» lo rassicurai, pensando alla leggenda che li circondava, a come potessero essere opera di esseri fatati o di divinità.

Alcune libellule girarono intorno a Zeno, le loro eleganti ali blu avvinghiate dal nero, come un monito per il ragazzo, e per me, poi salirono in alto, e scomparvero dietro a un Camino.

Il suo sguardo era una maschera di colori per le sue emozioni, il verde e il blu, cortesi, si inchinavano al carminio della sua passione, sembravano chiedermi il permesso di un ballo.

Folgoravano di limpidezza, emanando la luce di quello che sentiva per me, come una cascata di diamanti in un salto di acque filate dal sole.

Erano tonalità che corteggiavano i pensieri, solleticavano ad accettare; dietro il loro invito, un accompagnamento di violino.

«A volte vorrei non dovermi preoccupare del tatuaggio, non chiedermi a quale persona sia dovuto ogni suo nuovo cambiamento.» ammise, e io annegai nella cera calda dei suoi occhi.

Possiede il mio cuore in una conchiglia di ceramica nera, è l'unico che può riconoscere, tra i tanti battiti, quelli d'amore.

«Si è espanso...ancora?» chiesi, incerta, arrendevole, sapendo di non avere, per quanto lo volessi, alcun controllo sul mio terzo desiderio.

Zeno sembrò volermi passare un messaggio, silente, l'iridescenza nei suoi occhi mi fece immaginare le ali pastello di una fata di bosco, che dal suo Camino, ci osservava.

Si sfilò la giacca, in un gesto così imprevisto da essere piacevolmente scioccante, poi il maglione che indossava, restando solo in una camicia di lino azzurra, che si sposava con la chiarezza della sua eterocromia.

«Che cosa stai facendo?»

Il suo collo annerito avvertiva che in lui vi erano desideri consumati, e desideri repressi, a cui, come dipendenze oppiacee, era complicato rinunciare.

«Controlla tu stessa.» disse, iniziando a liberare uno a uno i bottoni dalle asole, che sotto quelle dita di oscurità, obbedivano senza fare resistenza.

Poco alla volta, porzioni di pelle si scoprirono dalla stoffa, come lapilli e pomici di una eruzione vulcanica, mentre il ragazzo si avvicinava a me.

Ero in bilico su un trapezio di stimoli, di paure, di dubbi, rischiavo di perdere l'equilibrio, di cadere da un momento all'altro.

Le sue iridi, come nella filigrana, intrecciavano le mie voglie in sottili fili aurei e argentei, creando riccioli di tentazioni.

Saiph - La mia stellaWhere stories live. Discover now