2.

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Mamma.
Ciao, mamma.
Insomma, quante erano le probabilità che battibeccassi proprio con il figlio del mio capo? Suppongo quasi inesistenti.
È quel 'quasi' che mi ha fregata del tutto. Ma andiamo, chi mai avrebbe potuto immaginare una cosa del genere?
Sono stata a pranzo dai Bradshaw al massimo un paio di volte e non mi sono certo messa a spulciare tutte le foto di famiglia in giro per casa. La mia attenzione è sempre stata rivolta a quello che stava sul tavolo, più che alle cornici appese alle pareti. Danny se la cava in cucina, ma il polpettone di Vivienne è tutt'altra storia. Quando il venerdì pomeriggio mi domanda se sono libera la domenica, sfreccio tra le sue braccia e la ringrazio come se mi stesse rendendo la donna più felice di sempre.
Amo il ginseng, con tutta me stessa. Il polpettone di Vivienne, però, si fa sempre più vicino al podio. Credo sia ad una fetta di distanza dal secondo posto.
Deglutisco, al pensiero che quel... quel... Devon potrebbe parlare male di me, causandomi problemi. Spero tanto non sia uno stronzo del genere. E poi Vivienne sta imparando a conoscermi, è quasi un anno che lavoriamo insieme. Non si farà influenzare da suo figlio. Giusto?
Mordicchio il labbro inferiore e picchietto l'indice sulla superficie piana del tavolo. Lancio uno sguardo alla tazza colma di caffè e sospiro. Mettendo da parte il mio dramma quotidiano, non mi è sfuggito il modo in cui Vivi ha mormorato il nome di suo figlio. Sembrava come se non lo vedesse da secoli, come se quella fosse la prima volta dopo anni passati lontani, senza mai sentirsi. I Bradshaw non mi hanno dato l'idea di essere degli stronzi, forse il figlio è l'eccezione.
Devon Bradshaw.
D.B.
Chi l'avrebbe mai detto?
Le poche volte che Vivienne o Danny mi hanno parlato dei loro figli sono sempre state positive. Certo, i racconti risalgono tutti a quando erano bambini ma succede, la maggior parte delle volte i genitori tendono a porre in evidenza momenti risalenti all'infanzia, più che all'adolescenza. Questo perché vorrebbero che i loro figli non crescessero mai. Naturale. Persino bello. Non che io sappia cosa significhi avere una bella infanzia o una bella adolescenza, ovvio. I miei genitori sono sempre stati diversi.
Già, diversi.
Preferisco utilizzare questo vocabolo.
Freddi, distaccati e interessati solo alla velocità con cui apprendevo le cose sarebbe troppo dettagliato.
Prendo un sorso di caffè e mi preparo ad affrontare la giornata. Ho solo bisogno di un toast prima di andare. Giuro che me lo farò andare bene. Dovrei mangiare fiocchi d'avena, yogurt magri o barrette proteiche, visto che tecnicamente dovrei essere a dieta... peccato che abbia resistito tre giorni prima di entrare nella prima pizzeria su cui ho posato gli occhi e ordinare due tranci di pizza giganti con doppio strato di mozzarella. La cosa peggiore? Non mi sono nemmeno sentita in colpa dopo averla finita ed essermi scolata una lattina di Pepsi. Pazienza, inizierò il prossimo lunedì del prossimo mese del prossimo anno. Perfetto, no?
Raggiungo il Velia's dopo essermi fermata da Starbucks e butto giù un sorso di caffè prima di aprire la porta con il fianco – dato che ho le mani occupate. «Buongiorno, boss!» strillo richiudendo la porta con il piede. «Oggi Starbucks. Fuori si gela e non ha ancora nevicato. Che ingiustizia!» esclamo.
La porta dello studio di Vivienne si apre, peccato non sia il mio capo a uscire ma... la sua progenie. Arriccio le labbra, infastidita dalla sua presenza. Non capisco cosa possa farci lui qui. Sono otto mesi che scorrazzo per Boston e non l'ho mai visto, adesso tre volte in meno di ventiquattrore? «E tu che ci fai qui?»
«Sono passato per prendere una cosa. Strilli così per ogni cosa?» domanda il pezzo di ghiaccio.
«No, ghiacciolo. Lo faccio solo in tua presenza. Adori la mia voce armoniosa, no?»
Devon Bradshaw si irrigidisce, assottiglia gli occhi e si avvicina. Solleva il bicchiere che poco fa ho poggiato sul bancone e ne annusa il contenuto. «Mia madre detesta lo zenzero.»
Sono sul punto di chiedergli come fa a saperlo visto che a quanto pare non si vedono da parecchio ma mi trattengo. Dopotutto, non sono affari miei. Quello che succede all'interno della loro famiglia riguarda solo i membri. «Buono a sapersi. Molto gentile» mi disfo della borsa e del cappotto sapendo che devo sistemarli sull'appendi abiti in ufficio. Passargli accanto è una fatica, soprattutto se a quel caratteraccio si accosta un profumo magnifico. Trattengo il fiato mentre i nostri corpi – dato che sembra essersi fossilizzato sul posto – si sfiorano per alcuni secondi. Mi osserva attento, come fosse un falco che aspetta di colpire la sua preda, riesco a scorgere persino della superiorità e mi infastidisce parecchio. Perché gli scorbutici devono essere anche attraenti? È ingiusto. Molto, molto ingiusto. Ogni volta è sempre così: vedi un bel ragazzo, che – accidenti – potrebbe benissimo essere il tuo tipo, poi apre bocca ed è fatta. O è uno stronzo, o è un cafone o è troppo stupido.
Butto fuori l'aria che stavo trattenendo quando sistemo tutto sull'attaccapanni e prego affinché Vivienne si sbrighi a oltrepassare la soglia della porta d'entrata. Sbaglio o comincia a fare caldo qui dentro? «Hai acceso i riscaldamenti?» domando.
«Perché, hai caldo?» ribatte incrociando le braccia al petto.
«Te lo sto chiedendo, no?» lo fisso ovvia.
Potrei giurare di star vedendo un ghigno compiaciuto su quel visino belloccio. Eh, già. Eh, già. Sta ghignando. «C'è qualcosa di divertente che mi sfugge per caso?» chiedo stizzita.
«Sono io che ti ho fatto accaldare? Paura di restare sola in mia presenza?»
«Ascoltami bene» gli punto un dito contro. «Potrai anche essere il mio tipo ma io non mi accaldo per te» sibilo.
Lui indietreggia di un singolo passo. È chiaro che la mia schiettezza lo ha colpito.
«Adesso, visto che a quanto pare ho scoperto della tua esistenza e beh, non posso cancellarla, ti chiedo per favore di seppellire qualsiasi tipo di ascia di guerra tu stia brandendo nei miei confronti. A nessuno piacciono i guerrieri norreni, tranne quelli della serie Vikings. Quelli piacciono a tutti. Ma non quelli veri!»
Devon mi osserva, le sue labbra si separano di pochi millimetri e poi rilascia un sonoro respiro. «Deve essere uno scherzo...» mormora pensando che io non lo senta.
«Allora» sbuffo spazientita. «La seppelliamo l'ascia o vuoi cominciare una guerra che non vincerai mai?»
«Chi ti dice che non la vincerò mai? Nemmeno mi conosci.»
Lo guardo e sospiro. Non starò qui a continuare una conversazione che non vedrà mai la fine. «Hai ragione. Cancelliamo qualsiasi tipo di conversazione e/o contatto che c'è stato tra di noi e ricominciamo. Ciao,» gli porgo la mano «io sono Avery, lavoro al Velia's da otto mesi e tua madre è il capo migliore di sempre.»
Devon Bradshaw guarda la mia mano per alcuni secondi. Poi l'afferra e con uno strattone avvicina il mio corpo al suo. Sgrano gli occhi, presa totalmente alla sprovvista dalla sua mossa. «Tra noi non c'è stato alcun tipo di contatto.»
«E... e questo come lo chiami?» riesco a biascicare.
«Fino ad ora» precisa, calmo.
Resto in silenzio, troppo sconvolta dai recenti avvenimenti. Mi sta toccando. La mia mano è stretta alla sua e non accenna a staccarsi. Che faccio, glielo faccio notare?
«Devon Bradshaw, sono il maggiore.»
Sbatto le palpebre più volte. Il maggiore? Nel senso che fa parte di qualche esercito? Santo cielo, ma davvero ho un QI sorprendente? Perché in questo momento sembro solo un'idiota che fissa un bel ragazzo.
Lui è il maggiore.
Oh, ma certo! Il maggiore dei fratelli!
«Avery Miller, sono figlia unica.»  

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Where stories live. Discover now