19.

7.7K 300 48
                                    

La prima settimana da inferma si rivela peggio di quello che credevo. Ero convinta che trascorrere sette giorni, mattina e sera, a letto sarebbe stato un gioco da ragazzi, invece... un incubo. Al terzo giorno volevo piagnucolare come una bambina, al quinto volevo fare i capricci e alzarmi. Ho stretto i denti, pregando che le visite da parte dei Bradshaw si facessero sempre più frequenti e per fortuna nel week-end così è stato. Devo ammetterlo, sono rimasta sorpresa anche dalla presenza del ghiacciolo, non mi aspettavo lo avrei rivisto altre tre volte. È stato strano osservarlo mentre scrutava la sua vecchia camera, mi sono sentita un po' come un'intrusa. Del resto, cosa c'è di più sacro di una camera da letto per una persona? Io adoravo la mia in Inghilterra, era l'unico posto dove i miei evitavano di entrare a causa dei troppi libri sparpagliati sul letto, gli scaffali e le mensole. Era un disastro, ma almeno era mio.
Giusto ieri, all'ottavo giorno, ho prenotato una visita in ospedale: andrò domani e onestamente fremo al pensiero di poter lasciare questo dannato letto. Mi sono stufata di osservare i poster del Boston United, i Boston Celtic e di band musicali – Devon è un fan degli Imagine Dragons.
Voglio solo smammare da questa casa e godermi la mia nuova abitazione. Vivienne e Danny sono stati eccellenti con me, i migliori ospitanti dell'intero universo, è solo che non mi piace approfittare e poi voglio tornare a lavorare, ugh. Non vedo l'ora di poter rimettere piede al Velia's e riprendere con le composizioni che avevo lasciato a metà. È già il nove novembre e manca un mese e mezzo al Natale, ciò vuol dire che già dalla settimana successiva dovremo cominciare con le composizioni per il Ringraziamento e in contemporanea quelle natalizie. Non c'è modo che io lasci Vivi da sola, anche a costo di strisciare per il negozio. Ora che ci penso, sarà il primo Ringraziamento che non festeggerò sorseggiando champagne su qualche yacht o in un ristorante a cinque stelle. Chissà cosa organizzerò per il pranzo. Vediamo... un tacchino non è una buona idea se consideriamo le dimensioni, il pollo è noioso e non sono ancora impazzita al punto da fare un piccione arrosto perciò... una pizza. Una fantastica pizza con mozzarella filante e una fetta di Red Velvet come dessert. Magnifico. Da ripete il ventotto novembre in onore del mio compleanno. Evviva.
«Sei ancora a letto?»
Alzo lo sguardo dallo schermo del cellulare e sbuffo. «Non ci vedi?»
Devon si chiude la porta alle spalle e si avvicina. «Come siamo scontrose quest'oggi.»
Gli riservo un dito medio dal profondo del cuore. Anche lui sarebbe più scontroso di quanto non lo sia già se si trovasse costretto a stare a letto tutto il tempo.
«Vengo a domandarti una cosa.»
Blocco il cellulare, guardandolo in attesa.
«Puoi anche aprire bocca, sai? Non mi piace parlare da solo.»
«Fai la tua domanda, Devon» altro sbuffo.
«Insomma... hai sentito qualche telefonata specifica il due novembre?»
Eh? Ma che razza di domanda è mai questa? Spero non abbia battuto la testa proprio adesso perché non ho tempo per stare appresso alle sue stramberie. Anzi, il tempo ce l'ho, è solo che non voglio. «Dammi qualche dettaglio in più.»
Si accomoda sul letto, sedendosi al mio fianco.
«Il due le gemelle hanno compiuto ventidue anni. Volevo solo sapere se ti fosse capitato di sentire mia madre o mio padre chiamarle, ecco tutto.»
Quindi le cocche di casa sono più grandi di me di qualche giorno, stupefacente. Per quanto riguarda la sua richiesta mi spiace deluderlo ma non ho notato nulla di strano. Danny e Vivienne sono sempre abbastanza stanchi quando una giornata piena si è presentata, dunque, non è assurdo notare un filo di stanchezza in più. O almeno, io la interpreto come stanchezza. Ad essere onesta, tutte le volte che Vivi è passata a vedere come me la cavassi ho finto di dormire per non tenerla sveglia ancora a lungo.
Gli costa rivelarmi una cosa del genere, glielo leggo in faccia, però si tratta delle sue sorelle e deve tenerci parecchio per venire ad elemosinare una qualsiasi informazione dalla sottoscritta. «Non mi sembra di aver sentito nulla, ma loro stanno fuori tutto il giorno, perciò potrebbero aver chiamato a lavoro» sollevo le spalle.
Sospira piano. «Già, è vero.»
«Posso chiedere il perché di questa domanda?» mi azzardo a chiedere nella speranza che non mi disintegri con lo sguardo.
«Nulla, ero solo curioso» liquida la cosa in fretta. «Starai qui ancora per molto?» cambia palesemente argomento.
Nonostante la voglia di discutere e stuzzicarlo, mi arrendo. Non sono affari miei. «Domani vado in ospedale. Ho la visita alle dieci» lo informo della novità.
«Ti accompagna mamma?»
Scuoto il capo e sposto l'attenzione sulle coperte che scaldano le mie gambe. «Hm-hm.»
Alcuni attimi di silenzio seguono alla mia uscita per niente convincente. «Eravamo d'accordo sul fatto che fossi una persona onesta.»
Torno a guardarlo. «Okay,» mi lagno, «prendo il taxi. I tuoi lavorano e non so quanto tempo perderò in sala d'attesa; perciò, non permetterò a nessuno dei due di saltare il lavoro.»
Devon mi osserva, scruta il mio viso con estrema attenzione. Quasi non gli chiedo cosa ci sia da fissare.
«Capisco» si alza. «Adesso vado, sono già in ritardo.»
«Divertiti a camminare tranquillo e a respirare senza il terrore di farti del male» scivolo sotto le coperte, coprendomi la testa.
«Prima di passare in ospedale fermati al primo asilo che trovi, le iscrizioni sono chiuse ma mai dire mai.»
Sto per insultarlo quando apre la porta e sparisce nel corridoio.
Lo detesto!
No, non è vero.

Il mattino successivo faccio colazione con Vivienne e Danny, ritorno in camera e attendo che escano entrambi prima di prepararmi alla svelta e fiondarmi giù per le scale. Beh, fiondarmi non proprio visto che scendo ogni scalino a passo di lumaca – ma è il pensiero che conta, non i dettagli. Afferro il cappotto e lo indosso, mi guardo intorno per scovare le chiavi di riserva e per fortuna le trovo sul tavolino in vetro. Lancio uno sguardo all'ora e apro la porta. Non dovrebbe essere troppo complicato richiedere un taxi, giusto? Scendo gli scalini e sospiro sollevata quando i piedi toccano finalmente il marciapiede. Basta scale.
Sto controllando il meteo sul cellulare quando percepisco la sensazione di essere osservata. Alzo il capo e punto gli occhi su una Camaro nera, il finestrino si abbassa e due occhi verdi fanno capolino da sotto gli occhiali da sole. Blu quando è nuvoloso, verdi quando splende il sole. Incredibile...
«Che ci fai qui?» domando avvicinandomi. Abbassarmi è fuori discussione.
«Stavo andando al lavoro ma mi hanno appena cambiato il turno. A quanto pare la mattinata si è appena liberata» spiega.
«Che fortuna» mormoro invidiosa. Pagherei oro per filare dritta al lavoro.
«Per te?» arcua un sopracciglio. «Sicuramente. Salta su.»
«Sul serio?» lo guardo sconvolta. Voglio dire, ha la mattinata libera ed è passato di qui? Potrei arrossire, giuro.
Devon non ribatte, attende che prenda posto nella sua macchina spaziale e parte. «Bella macchina» mi complimento osservando il design interno. Non ci avevo fatto caso la prima volta, troppo presa dai dolori.
«Grazie.»
«Sembra nuovissima.»
Devon mi lancia uno sguardo prima di posare la mano sul cambio e cambiare marcia. Il braccio teso evidenzia i muscoli ben definiti che si nascondono sotto la maglia. Dio... è normale che un gesto banale come questo mi faccia sentire caldo ovunque? Pensavo che una cosa del genere succedesse solo nei libri.
«In realtà l'ho presa in seconda mano, non avrei mai potuto permettermi un'auto del genere a prezzo pieno» rivela, tranquillo.
«Deve essere stato un ottimo affare. Ben fatto» accenno un sorriso. Io non l'ho mai neanche sfiorato un volante.
Mi fissa strino. «Come, scusa?»
Ricambio l'occhiata. «Eh?»
«Che significa che non hai mai toccato un volante?» specifica la domanda, prima di svoltare a sinistra.
Non avevo nemmeno capito di aver pensato a voce alta talmente sono sconnessa dalla realtà quando gli sto a fianco. «Scusa, non pensavo di averlo detto ad alta voce» arrossisco, imbarazzata. Lo so, ho ventuno anni – quasi ventidue – e non ho idea di come guidare. Però so come fare un prelievo, una manovra di Heimlich e altre cose più complicate come una tracheotomia. Spero valga qualcosa nel mio curriculum. «Non ho la patente, ecco tutto» minimizzo la cosa.
Si volta nella mia direzione quando si ferma ad un semaforo. «Quanti anni hai detto che hai?»
«Ventidue a fine mese» schiarisco la voce, muovendomi a disagio sul sedile.
«Puoi sempre imparare, sei giovane.»
La sua risposta mi fa rilassare. Pensavo che mi avrebbe preso in giro, lo ammetto. Solitamente è la prima cosa che un genitore – anche se non con tanto entusiasmo – insegna ai propri figli una volta compiuti i sedici anni. Io a sedici ero dentro la mia camera a guardare il vicino della mia stessa età guidare insieme al padre. Del resto, secondo i miei genitori non era necessario imparare a guidare visto che ci avrebbe pensato il loro autista a portarmi ovunque. Divertente, se consideriamo che uscivo di casa solo in rare occasioni.
«Sì, hai ragione» concordo in fretta. «Ehi, siamo arrivati, giusto?» guardo il finestrino, notando le enormi vetrate dell'ospedale.
«Hm-hm» annuisce.
«Grazie mille del passaggio, sul serio» lo guardo.
Devon posteggia a pochi passi di distanza dalle porte principali, poi apre lo sportello ed esce. Copio le sue azioni con aria confusa e attendo che mi raggiunga. «Che stai facendo?»
«Ti accompagno. Non ho davvero niente da fare» fa spallucce e si incammina verso l'entrata. «Ti muovi?» lo sento richiamarmi. Mi riscuoto, affrettandomi ad affiancarlo.
Bizzarro. Questo ragazzo è proprio bizzarro. 

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora