14.

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Gemo, superando la soglia del Velia's e mi trascino fino al bancone. Vivienne solleva un sopracciglio, curiosa del perché la sua dipendente si lamenti di prima mattina. Afferro con mano tremante il caffè che mi aspetta e ne butto giù un lungo sorso. Sto male e sono dolorante, ma non rinuncio alla mia droga giornaliera.
«Allora?» domanda la donna, afferrando il suo caffè.
«Tuo figlio mi ha tenuta sveglia fino a mezzanotte» grugnisco.
Vivienne sputa il caffè che stava bevendo, inaugurando il bancone con una ventata di pois marroni. «Cosa?!» gracchia, dandosi piccole pacche sul petto.
Realizzo quello che ho appena detto. Oh, poverina. In effetti, sì, poteva interpretare le mie parole anche in altro modo. Ammetto che l'idea di intendere ciò che ho detto alla lettera mi stuzzica la fantasia, e non poco, ma non sono questi il luogo e il momento adatto. «Sono andata in palestra. Ci siamo allenati» chiarisco.
«Bene» deglutisce. «Questa è una spiegazione più sensata» si schiarisce la voce ancora una volta.
«Andiamo da Garrett a pranzo?» chiedo.
«Penso di sì, ho voglia di pizza» risponde.
Annuisco e prendo un altro sorso di caffè. Cercherò di essere il più vaga possibile a proposito del monolocale nel caso dovesse chiedere. Non posso dirle che mi trasferirò subito, sarebbe fin troppo sospetto dopo tutte le suppliche che ho ricevuto a malapena la scorsa settimana. Nell'ufficio di Vivi c'è un divanetto, non è male per un paio d'ore di sonno in caso dovessi essere cacciata dal padrone di casa prima del previsto e il monolocale non fosse pronto. Sì, può andare. Fila liscio.
«Forza, a lavoro, non mi paghi per starmene con le mani in mano!» esclamo, battendo le mani.

«Forza, a lavoro, non mi paghi per starmene con le mani in mano!» esclamo, battendo le mani.
«A proposito» ignora il mio entusiasmo. «La paga è stata accreditata ieri, ti è arrivata la notifica?» domanda.
Ultimo sorso di caffè. «Sì, stanotte. L'ho vista stamattina.»
«Perfetto. Ricordati di uscire le ultime composizioni, oggi andranno a ruba» accarezza il mio braccio e si allontana, pronta ad accogliere il primo cliente della giornata.
Oggi? Lancio uno sguardo al calendario sul bancone e sgrano gli occhi. Accidenti, domani è Halloween e io non me ne sono affatto resa conto. Il tempo vola quando si è impegnati a fantasticare su una certa torcia umana e due genitori stalker.

Dopo aver divorato due tranci di pizza insieme a Vivienne, la saluto e mi avvio in banca. Devo prima ritirare tutto il denaro e poi passare in posta per affittare una casella postale. È la soluzione migliore. Per strada, intrattengo una conversazione con il signor Gamble a proposito della mia nuova sistemazione e con mio grande sollievo mi informa che sarà pronto non appena lo vorrò. Lo informo che per il fine settimana sarò dentro, che quindi ci vedremo allora per sistemare i documenti e che a fine giornata riceverà il primo affitto, più la caparra. Dopo aver attaccato, percorro gli ultimi metri e raggiungo la banca. Essendo una somma abbastanza cospicua, ma non eccessiva – come mi sarebbe tanto piaciuto – non posso ritirare al bancomat. La vita da adulta non mi è mai piaciuta. Mai. Fare la fila è la cosa più noiosa di sempre e so già che perderò un sacco di tempo, figuriamoci in posta.
Lascio la banca alle tre e venti, mi fermo in un bar per ordinare una cioccolata calda da portare via e mormoro una benedizione quando butto giù il primo sorso. Ho appena finito di pagare quando mi squilla il cellulare. Con un nodo in gola, lo tiro fuori dal cappotto e sospiro sollevata notando che si tratta di Devon.
«Pronto?»
«Stasera alle nove.»
Quasi non sputo la cioccolata. «Che? Sei impazzito per caso?!»
Lo sento rilasciare un mormorio esasperato. «No. Presentati o vengo a prelevarti con la forza.»
«Sono super dolorante» mi lagno, uscendo dal bar.
«Passerà. Dobbiamo lavorare sulle braccia e le gambe, c'è bisogno di un po' più di massa muscolare.»
Improvvisamente, una preoccupazione mi invade i pensieri. «Non sono grasse, vero?» mordicchio il labbro inferiore, in attesa di una sua risposta che prego sia negativa. Non che io abbia troppi complessi, però... ecco, sarebbe carino sapere che il mio corpo non ha niente che non vada. «Lo chiedo perché ho mangiato qualche schifezza in più ultimamente, ma non ho notato molti cambiamenti. Forse dovrei iniziare una dieta? Hai consigli?» lo tempesto di domande.
«Avery» sibila.
«Sì?»
«Non sei grassa. Sto solo dicendo che dovresti mettere più massa muscolare.»
«Mmh» mugugno, poco convinta.
«Vivi in una zona poco sicura, avere più forza e resistenza nel caso dovesse succederti qualcosa, non guasta» spiega, comprendendo perfettamente i miei pensieri.
Lo sta facendo per me. Perché non vuole che mi succeda nulla. E no, non mi sto facendo film mentali, questa è la verità. Sa che ho rischiato parecchio la prima volta, con Carl, e non è disposto a far sì che accada. Ho partecipato a un corso base di karate che non è durato a lungo visto che non faceva per me, nonostante ciò, cerco sempre di utilizzare questa cosa per incutere un po' di timore. Con Carl ha funzionato. Anche se lui era vecchio, ubriaco e fragile.
«Va bene, solo... non esagerare. Sono davvero tanto dolorante» acconsento.
«Alle nove» ripete.
«A stasera, ghiacciolo» attacco, con un sorrisino sul volto e mi dirigo in posta. Dio me la mandi buona, non voglio fare un'altra ora e mezza di fila.
Esco vittoriosa dalla posta stringendo una piccola chiave tra le mani. Ho ufficialmente una casella postale. E ora posso finalmente tornare a casa e sprofondare sul divano. Ho intenzione di mangiare un semplice hamburger per cena, nulla di troppo complicato. Non ho la forza necessaria per sperimentare ai fornelli stasera. Magari domani, se riesco a strisciare fuori dal letto e presentarmi tutta d'un pezzo al lavoro.
A casa, mentre aspetto l'ora di cena, do una sistemata in giro, cominciando a raggruppare roba. Ho degli scatoloni sotto al letto, dunque, inizio a sistemare alcuni oggetti casalinghi. Le due valigie colme di indumenti saranno le ultime ad uscire. Domani farò una lista generale degli oggetti più grandi da spostare – come le due lampade agli angoli della casa, il microonde e la macchinetta del caffè – per il momento voglio solo finire di cenare e andarmi a preparare.
Conclusa la cena, indosso un paio di pantaloncini e una maglietta maniche corte che annodo attorno alla vita. È vero, siamo quasi a novembre, ma in palestra fa caldissimo e io voglio stare più fresca possibile. Alle otto e trentacinque sono pronta, indosso il cappotto e mi chiudo la porta alle spalle. Controllo di aver preso tutto, soprattutto il cellulare e palpeggio le tasche. Perfetto. Esco all'aria aperta e rabbrividisco. Che freddo, cacchio. Chino il capo, infilando le chiavi in borsa e mi incammino. Peccato che non vada poi così tanto avanti. Il mio corpo viene tirato bruscamente indietro, facendomi finire sul marciapiede gelido. Un uomo dalla stazza voluminosa mi guarda rabbioso mentre si china e strattona la borsa dalla mia spalla. Non me la sento nemmeno di fare resistenza, la botta è stata così forte da farmi gemere e non riuscire a rialzarmi. L'uomo, alto e possente, mi tira un calcio sul fianco sinistro talmente forte da farmi contorcere sul posto. Oh, mio Dio. Credo mi abbia rotto qualcosa. Deve essere così.
«Dove sono i soldi, stronza?!» ringhia, furioso. Poi mi assesta un pugno in pieno viso. Lampi di luce saettano davanti alla mia vista, mentre tento di rimanere il più lucida possibile.
«Nel bo-borsellino» sussulto di dolore. Realizzo di star piangendo solo quando percepisco il sapore salato delle lacrime sulle labbra.
«Non prendermi per il culo. Ne hai in tasca?!» urla strattonandomi per il colletto del capotto.
«No, lo giuro!» esclamo terrorizzata indietreggiando di qualche passo. Infilo le mani nelle tasche, svuotandole. Faccio attenzione a non tirar fuori il cellulare e poi sbottono il cappotto per mostrargli che non nascondo altro. I suoi occhi si infiammano quando scorge la pelle nuda del mio busto, io, invece, inizio a pregare. Riconosco quello sguardo e no, non farò questa fine. Non lo permetterò. Attendo che il bastardo gigante si avvicini, racimolo tutta la forza che posseggo in corpo e gli sferro un calcio dritto nelle palle. Mi alzo, ignorando il dolore lancinante al fianco e sfreccio via dopo aver recuperato con uno scatto la borsa. Che si tenga il borsellino, penserò domani a bloccare la carta di credito. Non potevo lasciare la borsa incustodita, dentro c'è la chiave della cassetta postale e non avrei mai permesso a quel maledetto di venirmi a cercare per prendersi il resto e chissà cos'altro. Singhiozzo, correndo più in fretta che posso, svolto all'incirca tre vicoli quando la vista si appanna e tutto quello che riesco a scorgere è l'insegna al neon rosso di un presunto motel. Credo. Mi accascio sul muro gelido e crollo sull'asfalto lurido. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, notando numerose chiamate perse da parte di Devon. Il mio cuore palpita furioso, quasi volesse uscire dalla cassa toracica, mentre avvio la chiamata.
«Ma dove diamine sei finita?!» mi urla all'orecchio.
«Devon» singhiozzo, stremata. Non mi importa nemmeno che mi abbia urlato contro, sentire la sua voce mi conforta abbastanza.
«Avery? Che succede?» domanda allarmato.
«Sono... sono stata picchiata. Io- mi fa male tutto, Dev» piango più forte. Detesto farmi sentire e vedere così debole ma non mi era mai successa una cosa del genere. Faccio sempre attenzione, prendo le strade più trafficate e non do retta agli sconosciuti, eppure questa è la seconda volta.
«Dove sei? Ti vengo a prendere» dice, in sottofondo il rumore di una porta che sbatte.
«Non lo so» tiro su col naso. «Ho iniziato a correre, mi stava seguendo. Io... io non lo so.»
«Vedi qualcosa? Qualunque cosa potrebbe aiutarmi.»
I miei occhi finiscono di nuovo sull'insegna rossa. «Sì! Sì!» esclamo speranzosa. «C'è... un'insegna. Credo sia un motel. Si chiama Freedom. Non vedo altro.»
«Va bene. Va bene» mormora. «Resisti, okay? Sto controllando su Maps» dice.
«Non attaccare, ti prego» lo supplico, stringendo una mano sul fianco. Un singulto di dolore mi fa saltare sul posto.
«Avery?!» mi richiama preoccupato.
«Sbrigati, per favore.»
«Devo attaccare per qualche secondo, tesoro, va bene? Sto chiamando un'ambulanza.»
«No» scuoto il capo frenetica. «Non lasciarmi sola.»
«Pochi secondi, te lo prometto. Conta fino a trenta. Ti richiamo» attacca, senza lasciarmi modo di ribattere e io inizio a contare.
Sono arrivata a ventotto quando il cellulare squilla; accetto subito la chiamata. «Pronto?»
«Sono quasi arrivato.»
«Ti prego, fai presto» tremo, terrorizzata all'idea che quell'uomo possa trovarmi prima di lui.
«Ci sono quasi.»

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora