20.

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Ascoltando le parole del medico il sollievo inonda il mio corpo. Lo ringrazio talmente tante volte da far intervenire Devon e scusarmi al mio posto. Poco mi importa, le costole sono notevolmente migliorate e, nonostante non sia guarita del tutto, posso riprendere a lavorare e soprattutto posso tornare a casa mia. Sono così sollevata, potrei piangere da un momento all'altro. Essendo mercoledì, però, ho la sensazione che Vivienne mi lascerà il resto della settimana. Non glielo permetterò, domani mi presenterò a lavoro e lo farò con il sorriso più bello di sempre. Così è deciso.
«Ehi, hai da fare adesso?» guardo il moro prima di aprire lo sportello dell'auto.
«Non credo, perché?» attende che entri e inforca gli occhiali da sole.
Santo cielo, me lo mangerei.
Prendo posto sul sedile e tiro fuori il cellulare dal cappotto. «Avviso tua madre della bella notizia e poi torniamo a casa loro, mi servirebbe una mano con la valigia che Danny ha insisto che mi portassi» spiego.
Devon si inserisce nel traffico e annuisce, lo sguardo fisso davanti a sé.
Cerco il numero di Vivienne in rubrica e avvio la chiamata. Sono ben consapevole di cosa mi dirà, sto imparando a conoscerla, ma non ci sarà nulla che mi schioderà dalle mie idee. Sto molto meglio e ho bisogno di tornare alla normalità. Il farabutto che mi ha derubata e picchiata è ancora in giro, purtroppo. Beh, sono fiduciosa che la polizia riuscirà a beccarlo prima o poi, non può scamparla in eterno. Lo avrei perdonato se mi avesse solo rubato il portafogli – del resto, nessuno sa cosa passa per la testa di questa gente o la situazione disastrosa in cui si trovano – ma questo tizio mi ha picchiata perché ha voluto farlo. E io sono stanca della gente che picchia solo perché vuole. Dunque, non sarò dispiaciuta quando saprò che l'hanno preso. Forse questo fa di me una persona cattiva... eppure, non mi importa. Non stavolta. Carl mi ha solo spinta per recuperare la borsa e si è difeso quando io l'ho attaccato per farlo stare fermo, però non mi ha picchiata in quel modo. Certo, era ubriaco e questo rincitrullisce una persona, ma era anche disperato. In centrale ci ha raccontato di non mangiare da giorni e a quanto pare rubare borsette era una cosa che faceva spesso visto che i poliziotti lo conoscevano. Non voglio giustificarlo totalmente, non sarebbe corretto, ma non posso nemmeno metterlo sullo stesso piano del gigante che mi ha ridotta in questo stato.
«Pronto, Avery? Ci sei?»
Sbatto le palpebre, tornando alla realtà. «Sì, sì, scusami!» ridacchio. «Volevo soltanto informarti di un paio di cose.»
«Sono in pausa pranzo, sto tornando a casa. Puoi aspettare?»
Il suono dei clacson è troppo ravvicinato e credo che Vivienne se ne sia accorta. «Spero per te di trovarti a letto.»
«Già, a proposito di questo...» schiarisco la voce, voltandomi verso il moro.
«Avery.»
«Sono stata in ospedale per una visita di controllo. Non ti ho detto nulla perché volevo accettarmi di avere belle notizie. Beh, è così!» esclamo felice. «Le costole sono molto migliorate e nell'arco di quattro o cinque giorni dovrei tornare a posto del tutto. Il medico ha detto che il riposo forzato è stata un'idea eccellente per guarire prima. Sono quasi come nuova!» spiego euforica.
«Non posso credere che tu non me l'abbia detto! Sei andata da sola, a piedi. Ugh, Avery!» sbuffa.
Rido, non potendo farne a meno. «In realtà, sono con tuo figlio. Gli ho scroccato un passaggio.»
Il silenzio mi accoglie. Passano alcuni secondi, perciò scosto il cellulare dall'orecchio e controllo di non aver attaccato per sbaglio. No, la telefonata prosegue. «Vivi?» la richiamo.
«Sì. Ci sono. Sei con Devon, davvero?»
«Hm-hm. Stiamo tornando a casa tua per raccogliere le mie cose» spiego. «Ci vediamo lì.»
«Va bene, vi aspetto» attacca.
Il resto del tragitto trascorre in silenzio; eppure, non mi infastidisce. A dirla tutta, sono davvero contenta che Devon mi abbia accompagnata. Sul piano relazionale siamo sulla stessa lunghezza d'onda ma non posso negare lo sfarfallio ogni volta che lo vedo. E poi, comincio a notare certe somiglianze sempre più evidenti con il padre. Agli inizi Danny se ne stava molto sulle sue, non sbilanciandosi troppo nelle chiacchiere. Successivamente, ho iniziato ad accorgermi dei piccoli gesti che faceva nei miei confronti: prima passava al Velia's per portare il caffè solo a Vivienne, oppure cercava nel modo più casuale di chiedermi se fossi tornata a casa senza problemi... insomma, forse sto esagerando e ampliando la mia visione ma credo che Devon stia facendo lo stesso. È un po' più crudo, però mi va bene così. Mi intriga conoscere ogni sua sfumatura, anche la più scura.

Giunti a casa Bradshaw cerco di contenere l'euforia e salgo gli scalini con estrema lentezza. Già, non farei concorrenza nemmeno a una lumaca e una tartaruga in gara.
«Ehi, karate kid, la borsa» mi richiama Devon facendo oscillare il manico che tiene in una presa salda.
«Oh, giusto» attendo che mi affianchi e prendo la borsa nello stesso istante in cui si apre la porta di casa. «E per tua informazione, io ho fatto un po' di karate» varco la soglia sotto lo sguardo confuso di Vivienne.
«Mi spieghi?» si accomoda sul divano.
Annuisco e mi appoggio al bracciolo. Le riferisco cosa mi ha detto il medico e le parlo del monolocale, informandola che oggi stesso tornerò a casa. Per non farmi mancare nulla, le dico anche che da domani tornerò al lavoro senza se e ma. Vivienne scuote il capo contrariata, peccato che non possa obiettare il foglio che le sventolo in mano. Ho il permesso firmato dal medico per lavorare, quindi, ah! «Abbiamo un sacco di cose da fare. Devo terminare le composizioni e poi iniziare subito con quelle del Ringraziamento» mi alzo, iniziando a girare per la stanza. «Hai pensato al Natale? Manca un mese e mezzo e dobbiamo darci una mossa. Devo chiamare i fornitori e far loro una bella ramanzina. Non tarderanno anche stavolta!» punto il dito contro Vivienne. Lei e suo figlio mi osservano, come se avessero una psicopatica in casa. «Che c'è?» domando.
«Sei uscita dall'ospedale nemmeno mezz'ora fa e non sei guarita del tutto» risponde Devon.
«Okay, allora?» incrocio le braccia al petto.
«Allora» sospira, imitando il mio gesto. «Devi darti una calmata. Prenderti un altro giorno o due non cambierà le cose. Giusto, ma?» guarda sua madre.
Lei balbetta, colta alla sprovvista dall'attenzione del figlio. Accidenti, deve essersi proprio comportato da stronzo per scatenare una reazione così tanto forte in sua madre.
«Esatto. Non... non cambierà le cose. Le composizioni posso aspettare» guarda sempre il figlio. «E ho già parlato con i fornitori. Stavolta niente ritardi con le consegne» sposta lo sguardo su di me. «Ti fermi a pranzo?» di nuovo su Devon.
Stavolta è lui a essere preso alla sprovvista. Arcuo un sopracciglio, attendendo il modo in cui deluderà la donna che lo ha messo al mondo. Glielo si legge in faccia che vorrebbe una scappatoia ma io non sarò di certo colei a fornirgliela. Eh, no. Deve avvicinarsi alla sua famiglia, ne hanno entrambi bisogno.
«Già, ghiacciolo, ti fermi a pranzo?» sfoggio un sorrisino divertito, ma di certo si può scorgere la sfida che si nasconde dietro di esso.
«Ma certo» mi fissa dritto negli occhi. Vorrebbe strangolarmi, è palese.
Rido, soddisfatta e mi avvicino alle scale. «Vado di sopra, devo radunare un paio di cose.»
«Prova ad arrivare entro stanotte, okay?»
I miei passi si arrestano al terzo scalino. Assottiglio gli occhi e stringo le labbra. Vorrei tanto insultarlo, ma sono consapevole della presenza di Vivienne, sua madre e mio capo. Nonostante la nostra relazione vada oltre quella tra una semplice datrice di lavoro e la sua responsabile, ci sono dei limiti che non voglio superare esagerando.
Vivienne emette una risatina quando mi giro. «Ben ti sta» si avvicina al figlio. «Così impari a non avvisarmi» mi punta l'indice contro.
Vorrei farle il verso ma mi piace pensare di avere più di dodici anni, dunque, mi contengo e torno a scalare la montagna dell'Everest – meglio conosciuta come la scalinata di casa Bradshaw. 

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Where stories live. Discover now