23.

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Oxford, Londra,
nove mesi fa...

Mi trascino per i corridoi dell'ospedale con il peggiore dei mal di testa che io abbia mai avuto. Sul serio, in tutta la mia vita non mi è mai capitato di soffrire così tanto per una stupida emicrania. Ho già preso del paracetamolo, nella speranza di placarlo un po' ma al momento non ci sono miglioramenti.
Sbadiglio, entrando in sala break e mi avvicino alla macchinetta del caffè. Ho bisogno di un ginseng per poter andare avanti fino alle sei. Ho iniziato un turno di dodici ore da poco più di quaranta minuti e mi chiedo già quando potrò tornare a casa a sdraiarmi. Sono uno straccio. Non aiuta che abbia solo cinque stupide ore di sonno ma sono stata sui libri fino a tardi perché volevo concludere almeno uno dei tre manuali. Arrivata a metà del ventunesimo capitolo devo essere crollata, stamattina mi sono svegliata in una posizione terribile e con la testa sul libro.
«Buongiorno, dottoressa Miller» Lucy, la caposala, mi rivolge un sorriso e sparisce al di là della porta.
«Buongiorno a te» mormoro afferrando un bastoncino di legno. Mescolo il caffè e ne prendo un sorso. «Dannata emicrania» sibilo avvicinandomi alla lavagnetta appesa al muro. Oggi sono in turno con cinque colleghi che ho iniziato a detestare dal primo momento che ho messo piede a Oxford. Ovviamente sono più grandi, dunque, credono di potermi dare ordini quando più credono. Beh, oggi non sono nel mood giusto per accettare le loro stronzate. Voglio solo che mi lascino in pace.
Massaggio la spalla dolorante e finisco il caffè.
«Buongiorno, bambina.»
Non mi giro nemmeno. Lo stronzo può anche andarsene a quel paese per quanto mi riguarda.
«Giorno, dottoressina.»
Continuo a fissare il corridoio indisturbata. Ignoro Harry e Paul, dirigendomi verso la porta.
«Qualcuno oggi non è di buon umore, Paul» ride Harry.
È un pallone gonfiato, figlio di papà all'ennesima potenza e che lavora in questo ospedale solo per il cognome che porta. Non riesce nemmeno ad effettuare un fottuto prelievo. È imbarazzante. Paul, al contrario, è un bravo medico e ha studiato parecchio per essere qui. Pecca d'intelligenza solo quando è in compagnia di Harry. Credo che Paul voglia solo non sentirsi emarginato, messo all'angolo. Lui vuole integrarsi e per farlo c'è bisogno che si unisca al branco che ha preso di mira una preda: me.
«Già» mi volto all'ultimo minuto. «Non sono concentrata abbastanza. Forse dovresti pensarci tu ai prelievi della 6 e della 8, mmh?» sorrido.
Harry smette di ridere e si avvicina. Vorrebbe davvero sotterrarmi, glielo leggo negli occhi. «Non provocarmi, ragazzina.»
«Altrimenti che fai, idiota? Eh? Gira a largo, Harry, oggi non è giornata» ringhio.
Sto per uscire dalla stanza quando sento la sua mano stringere il mio braccio e strattonarmi.
«Harry» lo richiama Paul avvicinandosi.
«Mostra un po' di rispetto, stronza.»
Mi avvicino di un passo. «Lo farò quando anche tu ne avrai imparato il significato. E adesso, con permesso. Stronzo.»
Nessuno dei due si aspettava che rispondessi come si deve, non sono solita fare questo genere di scenate, ma sono così stanca... e non mi riferisco solo allo studio, alle ore in reparto, al poco riposo. No. Io sono stanca di questo lavoro in generale. Non penso di poter riuscire a fare il medico nella vita, o meglio, ad esercitare.
La settimana scorsa sono quasi inciampata sui miei stessi piedi dopo aver visto due bambini condividere lo stesso letto. Erano gemelli, entrambi malati e super pallidi in viso. Ho trattenuto le lacrime fino al bagno.
Due giorni fa ho assistito a un intervento chirurgico abbastanza delicato e anziché essere euforica dell'opportunità, ho atteso giusto il tempo di uscire dalla sala operatoria per poter rimettere nello stanzino delle scope. Ho pianto parecchio quel giorno. Una volta arrivata a casa, come se non fosse abbastanza, mia madre mi aveva accolta con un sonoro schiaffo in pieno viso. Il chirurgo, amico di mio padre da tempo, lo aveva informato che ero corsa via dalla sala operatoria e aveva chiamato per sapere se stessi bene. Lei mi aveva guardata con disgusto, come se avessi disonorato la famiglia. Mi ero scusata dicendo che avevo avuto un'emergenza intima e le avevo promesso che non sarebbe più successo.
«C'è un'emergenza!» esclama qualcuno.
Harry e Paul si guardano, l'attimo successivo sfrecciano in direzione del corridoio. Li seguo ma quello che vedo mi fa rizzare i peli sulla pelle. I miei colleghi mi stanno urlando qualcosa, solo che io non riesco a sentirli. I miei occhi sono fissi sulla donna stesa sulla barella. È ricoperta di sangue dalla testa ai piedi. Urla, scalcia, tenta di divincolarsi dal suo stesso dolore ma non ci riesce. Non riesco nemmeno a scorgerle il viso. Oddio. Una sensazione di nausea mi invade i sensi, la gola si chiude. C'è troppo sangue. Troppo. Non riesco a capire da dove provenga. Poi il silenzio, si sente solo il brusio assordante dei medici. I suoi occhi mi fissano, ma non scorgo nessuna paura. È come se si fosse arresa, come se stesse aspettando l'abbraccio gelido della morte. Oh, mio Dio. La vista si appanna, la prima lacrima scivola giù bagnandomi il mento. È tutto confuso. Lei continua a guardarmi, ricoperta di sangue.
Sangue.
Ce n'è così tanto.
Non ce la faccio. Non ce la faccio.
Mi chino, il corpo scosso dagli spasmi mentre rigetto la veloce colazione di stamattina e il caffè appena bevuto. Qualcuno si avvicina, poggiando una mano sulla mia schiena ma io non voglio il conforto di nessuno. Mi scosto, come se fossi appena stata bruciata dal tocco e inizio a correre. Questo non è il posto per me. Io non posso farcela. Non voglio.
Corro in direzione delle porte, raggiungo l'uscita e sfreccio per le strade della città universitaria. Ignoro le tempie pulsanti e mi precipito verso casa. I miei non ci sono, eppure sono certa di avere pochissimo tempo a disposizione per capire cosa fare.
Quando arrivo a casa mi fiondo sulle scale e apro la porta della mia camera. Devo andarmene, è l'unico modo che ho per prendere un attimo di respiro. Non voglio morire asfissiata dai miei stessi pensieri. Mi inginocchio sul pavimento e sposto il comodino, scaccio via il pezzo di battiscopa e infilo la mano nella rientranza. Tiro fuori un gruzzolo di banconote, tutte quelle che sono riuscita a conservare negli anni, e mi rimetto in piedi. Esco dalla camera e raggiungo lo sgabuzzino, occhieggio le mie valigie e le tiro giù dalle mensole. Tornata in camera apro le ante dell'armadio e piazzo quanti più vestiti possibili nelle valigie. Prendo tutto quello che riesco e le richiudo. Afferro i miei documenti, la borsa e altre cianfrusaglie e sfreccio verso la porta di casa con il cuore a mille.
Riesco a beccare un taxi e lo informo di portarmi al London Heathrow. Mentre mettiamo chilometri di distanza, controllo le varie destinazioni disponibile il prima possibile. La scelta ricade su Madrid e Boston, i voli tra circa un'ora e mezza. Ho il tempo di arrivare in aeroporto e superare i controlli prima dell'imbarco, è perfetto.
Scelgo Boston.
Prenoto il biglietto con la vecchia carta di mia nonna, ancora in uso solo perché l'ho rinnovata un anno fa e tiro fuori la mia. Per estrema sicurezza le spezzo entrambe e una volta in aeroporto provvederò a bloccarle e poi gettare il cellulare nel primo cestino che trovo.
Arrivata in aeroporto, pago il tassista e sfreccio verso l'entrata. Mi do una sistemata in bagno per non risultare una pazza scatenata che sta fuggendo di casa – aspetto che si avvicina molto alla realtà, a parte che non sono pazza. Raggiungo i controlli con facilità e grazie al cielo non sembrano esserci problemi. Mancano dieci minuti prima che l'imbarco inizi, perciò, mi affretto a richiedere il blocco delle carte e una volta aver finito, mi avvicino al bancone. Chiedo se per sicurezza il mio biglietto può essere stampato visto che il cellulare è quasi scarico e per fortuna la donna mi aiuta. Ottenuta la copia cartacea, mi disfo del cellulare. Non so se i miei miseri tentativi funzioneranno, ma al momento ho solo bisogno di salire sul dannato aereo e lasciare il suolo inglese.   
Quando l'imbarco inizia e finalmente mi siedo al mio posto, inizio a calmarmi. Non posso ancora cantare vittoria ma ci siamo quasi. Trascorro i venti minuti successivi mordendomi il labbro inferiore, lo faccio a pezzi. Capisco che devo piantarla, altrimenti attirerò l'attenzione su di me ed è proprio quello che non devo fare. Cinque minuti dopo le porte si chiudono, il comandante ci avvisa di allacciare le cinture e le hostess iniziano a mostrarci le procedure di sicurezza mentre l'aereo si muove. Quando l'aeromobile prende velocità e si solleva dal suolo vorrei piangere. Mi accascio sul sedile, nascondendo il rossore del viso con i capelli.
Ce l'ho fatta.
Sto andando a Boston.

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora