3.

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«Devon. Che ci fai qui, tesoro?»
Mi volto, trovando Vivienne sulla soglia della porta d'entrata. Per fortuna non è arrivata qualche minuto fa, quando la mano di suo figlio stringeva la mia e ci trovavamo pericolosamente... vicini.
«Sono passato a prendere una cosa. Stavo andando via» risponde il moro.
«Oh, d'accordo» sorride Vivi. «Ti fermi a pranzo?» chiede intenta a disfarsi del suo cappotto.
«No, sono di turno.»
Chissà se è un impiegato. Non ha la faccia di uno che starebbe volontariamente dietro la scrivania di un ufficio, ma del resto io non lo conosco, potrebbe davvero essere un dipendente giudizioso e pronto a soddisfare il suo dirigente.
«Certo. Beh... salutami Aurora. Non la vedo da un po'.»
«Sarà fatto. Ci vediamo, ma.»
Devon mi fa un veloce cenno col mento in segno di saluto, ricambio con un breve sorriso e torno a sistemare i crisantemi di cui mi stavo occupando.
Aurora.
Nonostante questo nome mi suoni familiare, non riesco ad associarlo a nessuno di mia conoscenza. È ovvio che un tipo come Devon Bradshaw abbia una ragazza. Un tempo quelli come lui li evitavo come la peste, c'erano così tanti bei ragazzi che sembravano uscire dalle copertine delle riviste più famose da perderne persino il conto. Per la maggior parte erano atleti, entrati grazie a borse di studio o alla buona parola dei genitori. Ricordo i loro sguardi curiosi, a volte riesco ancora a sentirmeli addosso. Io ero la ragazzina che non apparteneva al loro mondo, quella troppo intelligente, la stramba. Il fatto è che non avrei mai voluto ritrovarmi con loro, sapevo bene di non appartenere a quell'anno ma i miei genitori, i miei tutor, premevano affinché frequentassi Oxford e mi laureassi. E io l'ho fatto.
L'ho fatto.
Ho reso tutti felici.
Tutti tranne me.
Povera, piccola Avery Miller.
Già. Povera no di certo, piccola eccome. Sono entrata ad Oxford a diciassette anni e mi sono laureata a diciannove. Peccato non fosse abbastanza, dovevo prendere una seconda laurea ma la pressione... era tutto decisamente troppo. Io non ho mai voluto fare medicina, non ho mai e poi mai desiderato di fare il medico. Accidenti, manca poco che non svenga davanti a un rivolo di sangue, figuriamoci frequentare un tirocinio e studiare per una specializzazione in chirurgia.
Ho tirato avanti fino a otto mesi fa, quando durante un turno in ospedale è arrivata questa donna ricoperta di sangue. Giuro, non riuscivo nemmeno a capire da dove provenisse talmente era tanto. La donna urlava, scalciava e soffriva. Soffriva parecchio. Sentivo i miei colleghi urlarmi contro di sbrigarmi, di fare qualcosa. Eppure, il mio unico pensiero era: "c'è troppo sangue, troppo sangue. Voglio andare via." e così l'ho fatto... dopo aver rimesso colazione e pranzo sul pavimento del corridoio, davanti a quella povera donna che si contorceva dal dolore. Lei soffriva e io ho vomitato. È stato disgustoso, ma illuminante. Ho finalmente trovato il coraggio di ammettere a me stessa che non potevo più continuare. In fondo, cosa sarebbe successo se una cosa del genere mi fosse capitata mentre operavo qualcuno? Come avrei spiegato la cosa? Ho studiato medicina, so il fatto mio, certo, ma non posso fare il medico. Non voglio fare il medico. Non è il mio posto. Fino a otto mesi fa non sapevo nemmeno se l'avrei trovato mai. E poi è arrivato il Velia's. Con tutti i suoi bei fiori, le composizioni, il clima pacifico e sereno che si respirava... è stato amore a prima vista. Quindi eccomi qui.
«Avery, ti disturbo?»
«Eh? No. No. Scusa» accenno una risata. «Ti serve qualcosa?»
«No, ti ho solo vista persa nei tuoi pensieri e ho pensato che ne saresti voluta uscire» Vivienne stringe il mio braccio con affetto.
«Hai ragione. Adesso è tutto okay. A lavoro!» esclamo ritrovando l'entusiasmo.
La giornata passa in tutta tranquillità: per pranzo ordiniamo del poke dal nuovo ristorante hawaiano che si è aperto da qualche settimana e nel pomeriggio ci dilettiamo nel preparare nuove composizioni in vista di Halloween. È solo metà ottobre, ma la gente comincia già a domandare se abbiamo qualcosa di pronto. Ammetto che sono rimasta parecchio stupita quando Vivienne mi ha spiegato come funzionavano le cose al negozio. Non avevo mai sentito di un fioraio che vende composizioni per le festività. In breve, ci occupiamo di comporre un mix di fiori e piccoli oggetti che rimandano alla festa in questione. È geniale, sul serio.
«Ehi, domenica sei dei nostri?» domanda Vivienne, indossando il suo cappotto.
«Certo. Porto qualcosa?» chiedo, prima di sbadigliare.
Il mio capo alza gli occhi al cielo. «Solo la tua presenza.»
«Hm-hm. Come no» borbotto, sistemando la borsa in spalla.
«Come procede la ricerca?»
«Ho adocchiato qualcosa, ma nulla che al momento mi permetta di lasciare il buco» spiego, sfregando le mani. Cerco in tutti i modi di generare calore ma non funziona mai.
«Ho in mente qualcosa, ma devo prima parlarne con la signora Morgan. Sarebbe perfetto per te, in effetti.»
«Di che parli?» chiedo confusa.
Vivienne sorride come se fosse a conoscenza di qualcosa di cruciale per la sottoscritta. Beh, forse lo è visto il posto in cui mi ritrovo a vivere. «Nulla di certo. Scrivimi quando arrivi a casa, okay?»
«Come sempre. Saluta Danny» sorrido.
«Come sempre.»

Sbuffo, rilasciando una piccola nuvoletta nell'aria. Freddo. Più freddo del solito, a dirla tutta. E io non ho i riscaldamenti. O meglio, ce n'è uno ma non posso permettermi di accenderlo perché altrimenti ci sarebbero problemi con l'intero impianto elettrico. Non ho capito bene il nesso tra le due cose la prima volta che ho rischiato un infarto a causa delle lampadine che si sono fulminate ed esplose. Non penso di volerlo nemmeno scoprire.
Percorro l'ultimo tratto di strada stringendomi le braccia al petto, sto giusto tirando fuori le chiavi di casa quando vengo strattonata all'indietro. Sobbalzo, colta alla sprovvista ma rinsavisco subito e scatto in avanti per allontanarmi dal mio aggressore. Mi ritrovo faccia a faccia con un vecchio barbuto, puzza parecchio – non saprei di cosa – e i suoi abiti sono mal ridotti.
«Dammi la borsa» gracchia.
«No. Vattene!» lo spintono.
Il vecchio barcolla.
Santo cielo, non si regge nemmeno in piedi e vuole derubarmi. Allunga le mani in avanti e mi spinge. Perdo l'equilibrio, finendo con il fondoschiena sul primo scalino della rampa. Vecchio ma forte, devo concederglielo. Lo vedo adocchiare la mia borsa e scattare nella sua direzione. Inciampando deve essersi sfilata dalla mia spalla. «Okay, questo è troppo» ringhio. «Non ho niente di costoso, niente, ma non prenderai la mia borsa!» con uno scatto, mi rimetto in piedi e spingo il vecchio con tutta la forza che riesco a racimolare. Stavolta è lui a finire per terra. Mi costringo a sedermi sul suo stomaco per tenerlo fermo mentre con una mano trovo il cellulare nella tasca e chiamo il 911. «Sta fermo!» esclamo infastidita.
«911. Qual è la sua emergenza?»
«Sono Avery Miller e sto tenendo fermo un vecchio che ha tentato di derubarmi. Credo sia persino ubriaco.»
«Lei è ferita?»
«No, solo una botta.»
«D'accordo. Il suo indirizzo, signorina.»
Snocciolo l'indirizzo e chiudo la chiamata una volta aver saputo che una volante sarà qui a breve. «Sul serio?» guardo il vecchio, ormai arreso. «Sei fortunato sai? Facevo karate. Avrei potuto romperti i polsi, stronzo.»
«Levati!» biascica senza forze.
«Certo, così proverai di nuovo a rubarmi la borsa, razza di furfante» stringo la presa con le gambe attorno al suo corpo.
«Signorina Miller?»
Sollevo il capo e noto due agenti correre nella mia direzione. Mi alzo, lasciando libero il vecchio e recupero la borsa da terra. «Sono io. Grazie di essere venuti.»
«Sul serio, Carl? Sei finito dentro ieri sera!» sbraita uno degli agenti.
«Comincio a pensare che gli faccia comodo» sospira l'altro. «È tutto a posto, signorina? Ha bisogno di andare in ospedale?» domanda guardandomi.
Accenno un breve sorriso. «Sto bene. Metterò un po' di ghiaccio.»
«Dovrà riportare la cosa in centrale, mera burocrazia.»
«Se servirà a qualcosa, certo» sospiro rassegnata al pensiero che la mia serata non si concluderà a minuti.
«Prego, ci segua» allunga un braccio. «Siederà davanti e il mio collega farà compagnia al vecchio Carl.»
«Non sono mai stata seduta davanti!» esclamo.
«Sul retro sì?» domanda divertito l'agente intento a trascinare Carl verso la volante.
«No», sbuffo una risata imbarazzata. Sento le guance bruciare. Immagino di aver trovato il modo di riscaldarmi.
«Meglio così» annuisce sorridente.
Prendo posto sul sedile del passeggero e arriccio il naso quando vedo Carl sedersi sui sedili posteriori. Chi l'avrebbe mai detto che avrei concluso così la mia giornata? Io non di certo.

Nota: nel versione wattpad di Molly, il cognome di Tom è Hardy ma nel mio documento revisionato ho deciso di cambiarlo con Henley - visto che preferisco evitare problemi riguardanti il personaggio pubblico. Dunque, all'interno di questa storia, quando vi capiterà di leggere Henley saprete che è sempre Tom o per estensione Molly, solo con il cognome revisionato.  Spero di essere stata chiara:)

Nota2: ovviamente fatemi sapere cosa ne pensate della storia eh, io sono super curiosa di leggere le vostre teorie!

-Anna

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora