4.

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Stiracchio le braccia mentre sbadiglio e mi guardo intorno. Al contrario delle mie aspettative, la permanenza in centrale è stata più lunga del previsto a causa di alcuni tizi sbattuti dentro per molestie e ubriachezza. Gente più pericolosa di Carl, senza dubbio. Ecco, contro quei brutti ceffi non so se sarei riuscita ad avere la meglio. Nemmeno con le poche mosse di karate che ho appreso negli anni. Per fortuna ho potuto dormire e quindi recuperare le ore di sonno, altrimenti non so quanto avrei retto in negozio. Non sarebbero bastati tre caffè, ne sono sicura. E poi chi lo sentiva il dottore? Conosco il mio corpo traditore e so, so che avrei finito per stare male a causa della troppa caffeina.
Oggi ho un paio di commissioni da sbrigare e poi, una volta tornata a casa, devo preparare un dolce per il pranzo di domani. Non mi piace presentarmi a mani vuote, soprattutto se sono stata invitata a pranzo.
Faccio una veloce colazione e filo dritta in bagno. Conclusa la doccia, mi vesto optando per un maglioncino beige e un paio di pantaloni neri, larghi e comodi.
Comodo è la parola chiave per la sottoscritta. In effetti, non ho mai avuto così tante occasioni per indossare vestiti e gonne aderenti; dunque, non conoscendo altro, ho sempre scelto la comodità. Applico un filo di correttore e passo alla cipria. Ho le occhiaie, ugh. Provvederò a comprare quella roba in silicone che serve a farle sparire. Sì. Mi rendo conto di non essere molto ferrata nel mondo del make-up ma sto pia piano recuperando gli anni persi. Abbiamo sempre avuto una truccatrice per le occasioni particolari – per la maggior parte eventi – quindi, non ho mai perso chissà quale tempo appresso a rossetti, mascara, eyeliner e chi più ne ha, più ne metta. Anche a Oxford non mi truccavo molto, forse a causa del poco tempo libero che avevo a disposizione. Da quando sono tornata a Boston, invece, ho iniziato a guardarmi intorno, a capire cos'è che fanno le ragazze della mia età. Per fortuna, mi tocca ammetterlo, la mia mancanza di trucco o vestiti appariscenti non ha mai bloccato l'approccio con l'altro sesso. Già, se da un lato temevo i miei compagni di corso, dall'altro, in particolare nei week-end, tornavo ad essere una banalissima ragazzina di diciassette anni che ha voglia di divertirsi e godersi la vita. Frequentavo dei pub in cui anche i minorenni potevano consumare, e devo ammetterlo, molti ragazzi si avvicinavano con estrema tranquillità. Non ho mai creduto di essere una brutta ragazza, anzi. Semplicemente, non mi valorizzavo abbastanza. Adesso le cose sono cambiate e ne sono lieta. Non devo fingere di essere una nerd all'università e una tipa anonima adescata in un pub.
Ora sono Avery e basta. Un mix di entrambe le cose.
Quello che ho sempre voluto essere.
E ce la farò: con il tempo riuscirò a smussare tutti quei tentennamenti, quelle preoccupazioni che continuano a tormentarmi. Miguel de Cervantes diceva che a tutto c'è rimedio meno che alla morte. Mi aggrappo alle sue parole con tutta me stessa e vado avanti. Recupererò il tempo perso, i divertimenti, i dolori... tutto quanto.

Con le buste colme di spesa sto per tornare a casa quando i miei occhi superano una coppia di anziani e si soffermano sul ragazzo che conversa con una mora mozzafiato. Lei gli stringe il colletto del cappotto e lui rilascia un sospiro che viene fuori in una piccola nuvoletta. Non riesco a capire cosa si dicono e anche se mi piacerebbe tanto ficcanasare nella vita di Devon Bradshaw, non è corretto. Beh, posso fingere di non vederlo, giusto? È probabile che nemmeno si ricordi di me. Scorgo la ragazza premergli le labbra sulla guancia, poi si allontana e corre in direzione della fermata d'autobus. È solo. Pure peggio.
Stringo le buste al petto e sbuffo, tentando di scacciare una ciocca dalla mia vista. «Andiamo» mi lagno, continuando a sbuffare. Cammino, impegnata ad allontanare i capelli e nel frattempo prego di averlo superato. Non manca molto al mio buco, giusto un paio di isolati. Posso farcela.
«Avery Miller.»
I miei passi si arrestano mentre strizzo gli occhi. Nel profondo, molto profondo, sapevo che mi avrebbe beccata. Con estrema lentezza mi volto, sollevo lo sguardo e lo punto sulla sua figura. Indossa una tuta, questo è chiaro. Mi specchio su due pozze azzurre come il cielo e sussulto piano. I suoi occhi sono così limpidi da sembrare persino finti. Non avevo mai visto una tonalità del genere. È... sorprendente. «Devon. Ciao.»
Scende uno scalino accorciando le distanze. «Ti serve una mano?» chiede spostando gli occhi sulle buste che reggo.
«No, ma grazie lo stesso» accenno un sorriso.
Annuisce ma è svelto ad aggrottare la fronte. Assottiglia gli occhi, come se stesse studiando qualcosa di specifico sulla mia faccia. Ho qualcosa che non va? Forse si è sbavato il trucco. Sono proprio una frana.
«Che hai fatto?» muove un altro passo.
Se non ci fossero le buste della spesa a separare i nostri corpi, me lo ritroverei a un palmo dal naso. «Che intendi?»
«Hai un graffio, sulla mascella. È recente» spiega, mostrandosi infastidito.
«Ahm... non è nulla di che, tranquillo» minimizzo la cosa. «Dovresti vedere l'altro» accenno una risata.
Lui non ride, anzi, si fa – se possibile – ancora più vicino. «Qualcuno ti ha picchiata?» ringhia.
«Cosa? No! Oh, cielo, no» scuoto il capo. Una stupida mela finisce sul pavimento a causa dell'oscillazione e con lei, il mio umore. «Ascolta» prendo un respiro e nel farlo le buste si agitano ancora una volta.
Devon sbuffa e afferra le buste lasciandomi a mani vuote. Caspita, mi sembra di pesare venti chili in meno. Beh, in media una busta con alimenti standard pesa intorno ai due chili, quindi forse venti sono un po' troppi. Vabbè.
«Ieri sera tornando a casa hanno tentato di derubarmi» spiego. «Carl era ubriaco, mi ha spinta e devo essermi graffiata, non lo so. Non ci pensavo nemmeno.»
«Carl?»
«L'uomo che voleva derubarmi. Si chiama Carl. A quanto pare lo fa spesso. Comunque, ho ricambiato il favore e l'ho messo al tappeto, poi mi ci sono seduta sopra e ho chiamato il 911. L'agente McCall e l'agente Sanders sono stati fantastici. Non ero mai stata davanti su una volante» sorrido fiera della mia esperienza.
«Perché, sei mai finita dietro? E poi, che significa che ti sei seduta sopra a un ubriacone?!» indaga, confuso.
«Perché pensate tutti che io sia finita sui sedili posteriori di una volante? Sono una persona per bene io!» sbuffo, stizzita.
«Rispondi alla domanda, Avery.»
«Dovevo tenerlo fermo, no? Provava a divincolarsi e quello era il modo più veloce per tenerlo fermo» borbotto.
«Mia madre lo sa?»
«Suppongo che lo saprà... domani?» lo fisso. O forse oggi.
«Già. Dov'è che abiti?»
Okay, perché vuole saperlo? Spero non abbia intenzione di fare ciò che penso. No, no. No. «Io... abito là!» indico a casaccio un palazzo poco distante.
«Ma davvero?» annuisce piano. «Bene, allora non è un problema se ti aiuto a portare queste fino a casa, giusto?» sorride.
Falso. Falso come le banconote da tre euro.
«Ma no, non c'è alcun bisogno» tento di riappropriarmi della mia spesa.
«Insisto.»
Cocciuto come sua madre. Adesso inizio a vedere le somiglianze tra questi due.
«E va bene!» sbuffo per l'ennesima volta. «Non abito lì. Sto a un paio di isolati.»
«Sali in macchina» scuote il capo.
Lo faccio. Salgo nell'auto di Devon Bradshaw e lascio che mi porti al buco.
Che magnifica giornata.

Nota: Giuro che questa è l'ultima (almeno spero). Vi lascio un velocissimo alberello genealogico che di logico non ha nulla perché sono una frana con la grafica. Detto ciò, apprezzate lo sforzo. Love u.

 Love u

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𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Where stories live. Discover now