7.

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La mia giornata trascorre abbastanza in fretta, l'unico impiccio è quello di tentare in tutti i modi possibili di evitare le domande di Vivienne sul monolocale. È un osso duro, non molla nemmeno per sbaglio. Beh, neanche a me piace mollare di solito. Certo, non sembrerebbe visto che sono scappata a Boston ma in generale sono una che non molla così facilmente, soprattutto se ne vale la pena.
Ricordo che una volta, alle elementari, c'era questa bambina molto timida, si chiamava Lucy e si era trasferita da poco nella capitale del Massachusetts. Ai tempi anche io ero timida e di sicuro alcuni bambini di sei anni sanno essere parecchio stronzi e cattivi, dunque, non miglioravano la situazione. Lucy faceva parecchia fatica a inserirsi nelle conversazioni, nei giochi di gruppo o semplicemente a cominciare un banalissimo discorso, così un giorno decisi di parlarle. Lei non mi dava retta, stava sulle sue e arrossiva in modo prepotente quando mi avvicinavo per mostrarle due delle mie barbie che mi era permesso portare nello zaino. Tentai molteplici volte prima di ottenere successo, sapeva farsi desiderare, anche se aveva solo sei anni.
Poi la svolta: non so come riuscii ad avvicinarla e a ricevere una risposta. Da quel giorno cominciammo a parlare e parlare, giocare insieme, costruire fortini nel soggiorno di casa sua e persino scegliere le scuole medie insieme.
Ora non so più dove sia. Durante il secondo semestre del primo anno i miei genitori ci fecero trasferire e da allora... il nulla. Non ci siamo più sentite, né scritte. Spero solo che stia bene e che abbia superato la sua timidezza, era una brava bambina, una bella persona.
«Ehi, Ry» mi richiama Vivienne.
Sono pronta a un nuovo attacco. Chissà che si inventerà stavolta, sono stremata ma curiosa. «Sì?» la seguo nel suo studio per recuperare le nostre cose.
«Lo so che è troppo presto» dice prima di mordicchiarsi il labbro inferiore.
«Troppo presto per cosa?» chiedo confusa.
«Sai domenica a pranzo...»
«Quando mi avete mitragliata di urla? Sì.»
Lei assottiglia gli occhi. «Piantala, lo sai anche tu che avevo ragione. Sto insistendo per questo. Comunque» sventola una mano in aria dopo aver indossato il cappotto. «Non starò qui a romperti le scatole ma... io volevo solo ringraziarti.»
Okay, adesso sono decisamente confusa dalla piega di questa conversazione. «Ringraziarmi per cosa?»
«Non vedevo mio figlio sorridere da anni. Ecco l'ho detto, l'ho detto!»
Rimango a corto di parole. Sul serio, di solito c'è un flusso continuo di pensieri sconnessi o meno nel mio cervello ma in questo preciso istante tabula rasa. Niente. Nada. Rien.
«Okay!» strilla battendo le mani. «Questa conversazione non c'è mai stata. Io non penso niente su te e mio figlio. Il tuo posto è salvo, andiamo a casa!» vomita parole su parole mentre afferra il mio braccio e mi trascina verso l'uscita.
«Vivienne-»
«Ah-ah. Vai a casa e scrivimi subito quando arrivi. Non indosserò il pigiama fino a quando non saprò che sei al sicuro.»
«Vivienne.»
«Ho detto: ah-ah» ripete.
Rilascio un breve sospiro e sorrido. «Sei una buona mamma. A domani» stringo la sua mano e mi volto. Sento il suono di un singulto ma quando mi giro per controllare che il mio capo stia bene, lei se l'è già svignata.
Scuoto il capo, non rifletterò sulle parole che Vivienne mi ha rivolto. Non stasera che salirò sull'R7 di suo figlio.

Alle otto e cinquanta il campanello suona e io ho appena concluso di abbottonarmi i jeans. Perché suonano tutti quando sto facendo pipì, la ceretta o la doccia? La gente deve avere una specie di radar per i momenti meno opportuni, altrimenti non si spiega. Mi avvicino al citofono e schiaccio il solito pulsante. «Sali, ho quasi finito.»
Apro la porta, calzo le scarpe e indosso il cappotto. Qualcuno si schiarisce la voce per rendere nota la sua presenza così sollevo il capo e mi scontro con due occhi verde foresta. È impossibile. Ricordo bene il colore e non era questo. «I... i tuoi occhi» biascico confusa.
«Cambiano colore a seconda del tempo» risponde guardandosi intorno. «Lo sai, è proprio tremendo» arriccia il naso.
«Già» afferro la borsa. «Spero di andarmene presto. E tu sei molto gentile e carino a farmelo notare, un vero cavaliere!»
«Sto constatando l'ovvio, nulla che tu non sappia già» sospira prima di girare i tacchi e sparire per le scale.
«Sì, un uomo d'altri tempi» borbotto chiudendomi la porta di casa alle spalle.
Arrivata al portone, lo trovo con due caschi in mano. Si gira e me tira uno. Per sua fortuna ho dei buoni riflessi, altrimenti il gentiluomo si sarebbe ritrovato con un casco in meno.
«Graffiala, sporcala o tocca qualcosa che non dovresti e ti lascio dove capita» dice prima di indossare il suo casco.
Gli mostro il dito medio in tutta la sua gloria, poi indosso il mio e lo raggiungo. Prende posto sul sellino con estrema maestra, toglie il cavalletto e pianta bene i piedi sull'asfalto. «Sali.»
Poggio una mano sulla sua spalla e sollevo la gamba. Prendo posto e striscio in avanti. «Con queste che ci faccio?» agito le mani.
«Santo Dio» lo sento mormorare.
Rimango sconvolta quando afferra le mie mani e se le piazza sull'addome che, anche con il tessuto del chiodo che indossa, riesco a captare come ben piazzato. Si allena, questo è chiaro. Lo dimostrano anche le cosce sode e i bicipiti definiti. Già, gli ho dato un'occhiata come si deve e sì, è messo bene ovunque. Ugh, è difficile sapere che dietro a un corpo scultoreo come il suo si nasconde un mezzo stronzo. Mezzo perché ancora non lo conosco del tutto.
«Reggiti, o finirai per strada.»
Resto in silenzio e stringo la presa attorno al suo busto. Devon accende il motore e l'attimo successivo ci ritroviamo a sfrecciare tra le strade semi deserte di Boston. Si gela, accidenti.
Non ho idea di dove mi stia portando e a essere sincera, nemmeno mi importa. Mi rendo conto che avrei potuto evitare una cosa del genere ma Devon Bradshaw nasconde ben altro oltre a quegli occhi gelidi e i modi un po' bruschi. Certo, non intendo scoprirlo confessando il mio amore segreto per lui visto che non sono in cerca di relazioni sentimentali al momento ma... del sano divertimento non sarebbe un'idea terribile, soprattutto del divertimento con lui.
Impugno il tessuto in pelle e strizzo gli occhi quando prende una curva piuttosto stretta. Rilascio piano la presa e sospiro alzando poco il capo. Il bagliore dei lampioni riflette sui caschi mentre li superiamo, creando uno strano gioco di luci. Ci siamo lasciati il centro alle spalle da un paio di minuti, eppure sembra molto di più. Devon percorre la MA-1A per un tempo indefinito mentre mi godo la vista del canale di Boston, ben presto le palazzine tornano a dominare e così comprendo che ci troviamo sul lato Est della capitale. Non vengo molto spesso da queste parti; in effetti, non credo di esserci mai stata, nemmeno quando ero più piccola.
Nata a Boston e, nonostante ciò, sembro una stupida turista. Voglio dire, quando sono tornata non l'ho nemmeno definito ritorno, piuttosto è diventato una meta scelta a caso. Non so se sia più patetico o triste. Forse entrambi.
Devon si addentra in una strada che di rassicurante non ha nulla, persino i lampioni che prima pensavo fossero confortanti mi mettono ansia. Le case, quasi tutte in mattoni, sono buie, alcune sembrano persino abbandonate. Non ci sono molte auto parcheggiate, segno che non devo avere poi così torto. Il moro ferma la sua moto di fronte al 19 di Bremen Street. «Che strane finestre» mormoro osservando i piccoli esagoni al centro della parete mattonata.
«Scendi.»
Faccio come mi dice mentre brividi risalgono per la schiena. Non so se per il freddo o il timore che possa accadermi qualcosa. «Dove... dove siamo?» domando dopo essermi tolta il casco.
Devon si disfa del suo e passa una mano tra i capelli corti. Mi punta gli occhi addosso mentre infila le chiavi nella tasca del suo chiodo. «Un posto.»
«Questo lo vedo» annuisco ovvia. «Mi chiedevo il perché.»
«Allora forse avresti dovuto usarlo» ribatte facendo il giro. «Vieni.»

𝐀𝐕𝐄𝐑𝐘 [𝐁𝐨𝐬𝐭𝐨𝐧 𝐋𝐞𝐠𝐚𝐜𝐲 𝐒𝐞𝐫𝐢𝐞𝐬 𝐕𝐨𝐥.𝟏]Where stories live. Discover now