4. Due anni prima

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Come avesse fatto a convincerla a seguirlo in un'avventura del genere, non se lo spiegò nessuno.

Rosa era sempre stata una ragazza con i piedi per terra. Studiava, lavorava e non aveva grandi pretese; sognava fin dall'infanzia una vita serena, con un marito premuroso e dei pargoli. Desiderava un bambino da quando dieci anni prima era stata la babysitter di Giulio, che amava come un primo figlio. Soprattutto sognava un marito, un uomo tenero con cui dividere i suoi giorni e in particolare le notti, che erano il suo problema di sempre.

Fin da piccola odiava dormire da sola; ogni sera provava a convincere sua madre a tenerla con sé, ma il più delle volte veniva respinta. Le rare occasioni in cui i genitori rinunciavano a dormire abbracciati per ospitarla nel lettone, erano state le uniche notti serene della sua vita.

Era convinta che il matrimonio le avrebbe donato la felicità, se non altro per la possibilità di dormire fra le braccia di qualcuno. Aveva stabilito che avrebbe realizzato il suo desiderio, dunque se stessa, nell'anno più atteso del secolo: il duemila. Era certa che sarebbe diventata mamma proprio allora, a venticinque anni, un'età che le pareva perfetta per coronare il suo sogno.

Purtroppo era arrivata al duemiladue senza uno straccio di relazione stabile. Gli uomini che incontrava sembravano lo scampolo di chi aveva potuto scegliere, portandosi via gli esemplari migliori. Era una teoria della quale andava sempre più convincendosi: i trentenni dell'epoca erano quelli che nessuno aveva voluto prima, oppure erano già stati scartati. Per questo non erano un granché. La maggior parte di loro viveva ancora a casa con i genitori; erano viziati come dei tredicenni e desideravano tutto, tranne che mettere su famiglia. Terrorizzati dalle responsabilità, avevano quale massima aspirazione superare le selezioni per partecipare al 'Grande Fratello' o qualche amenità del genere; sognavano di diventare famosi, e magari anche ricchi, senza alcuna fatica. Volevano una vita facile, cosa che secondo il calcolo oggettivo delle probabilità risultava impossibile. Il trentenne medio giocava ore e ore alla playstation, tifava in maniera più o meno sfegatata una squadra di calcio e, se non frequentava l'ottavo anno fuori-corso di università, svolgeva comunque un lavoro che gli permetteva di non pensare, alimentando la pochezza spirituale che lo caratterizzava.

Anche lei viveva ancora con i genitori, ma stava programmando di andare via di casa. Conduceva una vita normale, lavorava qualche ora al giorno, studiava psicologia ed era insegnante volontaria in un centro di accoglienza per stranieri. Due sere a settimana giocava a pallavolo con le sue compagne di università, in una bella squadra di un livello lievemente inferiore rispetto al proprio, motivo per cui aveva accettato di ricominciare a giocare.

Accadde che una sera il migliore amico di Sabrina, una sua compagna di squadra e di università, andò a una loro partita.

Da quando Rosa la conosceva, continuava a sentirle nominare quel David, che spacciava per il suo migliore amico ma che invece amava, anche se non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo.

Non fosse stato per quella sua malcelata passione per lui, avrebbe giurato che Sabrina fosse lesbica; portava sempre i capelli corti, mai un filo di trucco o qualcosa di simile a una gonna. Fumava da maschio e, soprattutto, la guardava da maschio. Eppure quell'essere dai gusti indefiniti era senza dubbio innamorato del suo migliore amico, altrimenti non si spiegava perché in tutti quegli anni non glielo avesse mai presentato. Non che Rosa ci tenesse poi così tanto. Un fidanzato, più o meno, lo aveva sempre, e non voleva altri casini per la testa.

Quella sera, proprio durante un set decisivo, notò il viso di Sabrina divenire viola.

«Ehi laggiù! Tutto bene?» domandò preoccupata.

Per un istante temette per la sua salute.

Arrivò una pallonata dall'altra parte del campo e per poco non la travolse.

«Time out! Time out!» strillò all'arbitro.

Afferrò Sabrina per un gomito e la trascinò a bordo campo.

«Allora? Si può sapere cosa diavolo ti succede?» chiese stizzita.

«C'è... c'è lui...»

«'Lui' chi?»

In quel momento nella sua mente non c'era spazio per altri pensieri fuorché vincere quella partita. Ma Sabrina sembrava pensare a tutt'altro. Pareva ipnotizzata. Così seguì il suo sguardo per capire a cosa fosse dovuto quel rimbambimento.

All'improvviso arrossì pure lei.

Le apparve una statua, con due occhi grigio-verdi da bastardo, i capelli da Gesù Cristo.

Rosa ricominciò a sudare.

«Il David di Michelangelo...» farfugliò.

«Ѐ David»

«'Quel' David??»

«Te l'avevo detto che era carino...»

«E tu quel monumento me lo chiami carino?»

Persero la partita, ma poco importava; erano le prime del campionato e quella clamorosa sconfitta fu del tutto insignificante, oltre che giustificata.

Rosa non aveva mai visto un uomo più attraente di David - mai nome fu più appropriato - in vita sua.

Avrebbe smesso di giocare a pallavolo per uno così.

Purtroppo si trovò a fare ben peggio.

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