16. Immigration

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L'aereo decollò puntuale alle 11:40. Rosa osservò le hostess, come le suggerì David, e in effetti la loro tranquillità la mise a suo agio. Sentì una forte pressione al petto durante la spinta del decollo, la punta del velivolo mirò il cielo, lei che era seduta all'altezza delle ali si voltò per verificare l'inclinazione complessiva. Scorse solo volti distesi e anche lei tutto sommato si sentiva serena. Aveva una nuova vita davanti che per nulla al mondo avrebbe voluto turbare. Quando l'aereo staccò da terra e sembrò perdere la sua spinta, guardò allarmata la hostess che le restituì un mite sorriso. Era solo una sensazione quella, dovuta alla mancanza di attrito col terreno. Ripensò a Mohamed, a quando le aveva detto che era più probabile che 'cadesse un treno' piuttosto che un aereo. Sorrise e si lasciò condurre da quel gigante d'acciaio verso il suo sogno.

Quando l'aereo raggiunse la velocità di crociera, la spia luminosa delle cinture di sicurezza smise di lampeggiare. Le slacciò in fretta e si diresse in bagno.

«Rosa!»

Questa volta la voce era vera, altro che fobie. Si voltò e riconobbe gli occhi allegri di Pamela, una sua vecchia compagna di scuola.

«Cosa ci fai qui?» le chiese sorpresa l'amica.

«Cosa ci fai tu, qui! Quanto è piccolo il mondo?»

Pamela le raccontò del suo trasferimento di tre mesi a Santa Barbara; le confidò che aveva investito i soldi della sua liquidazione per un master negli States e che partiva per cercare di dimenticare due dispiaceri: la perdita del lavoro e quella più struggente del fidanzato, che dopo due anni di convivenza l'aveva lasciata per un'altra.

«Comunque non so come tu possa essere così tranquilla. Io ho una fottuta paura di volare.»

Appena tornò al suo posto, trovò Pamela che parlottava con David. Si scambiarono le email, con la promessa che in quei mesi avrebbero provato a incontrarsi in California, cosa che non avevano fatto in Italia, pur vivendo nella stessa città. Los Angeles e Santa Barbara distavano a un paio d'ore d'auto, l'incontro era fattibile.

«Carina la tua amica» si complimentò David appena Pamela si allontanò.

«Oddio, carina... non mi sembra stia invecchiando molto bene. Saranno stati i dispiaceri, ma con tutte quelle rughe sembra mia nonna.»

«Oh-oh! Attenzione, sta parlando Miss Mondo.»

«Ma sarà mai carina, scusa? È solo alta. Non le riconosco altre qualità. Non mi è mai stata nemmeno troppo simpatica, se proprio vuoi saperlo.»

«A me è piaciuta molto, invece.»

«Quanto le hai parlato?»

«Dieci minuti.»

«Appunto. Comunque non preoccuparti, una volta arrivati la inviteremo a trascorrere un week-end da noi. Non temere.»

Smisero così di parlarsi fino a quando l'aereo non atterrò a New York per lo scalo.

Arrivati alla barriera dell'Immigration salutarono Pamela. Il terminal per Santa Barbara era dalla parte opposta dell'aeroporto. Tornarono a promettersi che sarebbero rimasti in contatto, quindi ognuno proseguì per la propria strada.

La coda che li attendeva sembrava infinita. Rosa temette di perdere la coincidenza.

«Lascia perdere il prossimo volo, pensa piuttosto a quello che devi dire. Se sbagli, questi ci mandano indietro» ringhiò David, che da qualche ora non sembrava più lui.

Dopo un'ora e mezza arrivarono davanti agli agenti della dogana, che prima interrogarono David e lo lasciarono passare. Poi squadrarono lei con diffidenza. Le chiesero, almeno così le parve di capire poiché l'inglese lo parlava a stento, cosa pensasse di fare in California con quel visto turistico di sei mesi.

«Viaggio di nozze» rispose in un inglese inqualificabile.

L'agente storse il naso.

«Ah sì? E quando vi siete sposati?» domandò indicando le sue lunghe dita affusolate, prive di anelli.

«Abbiamo chiesto il visto all'ambasciata americana di Milano, ce l'hanno accordato senza problemi. Andiamo da amici che ci ospiteranno. Ci sposeremo appena torneremo in Italia, glielo giuro» balbettò a memoria. David le aveva fatto ripetere quelle parole fino allo sfinimento.

L'agente le chiese il nome e l'indirizzo di Paul, un caro amico di Rocco che li avrebbe ospitati finché non avessero trovato una sistemazione, e Rosa si affrettò a fornire l'unica indicazione sincera di tutto il colloquio.

Un turista che entrava con un visto di sei mesi aveva sempre destato qualche sospetto, a maggior ragione in quel periodo così critico per gli USA.

La lasciarono passare con fare minaccioso. I loro sguardi le intimarono: "Attenta bambolina che di facce come la tua ne abbiamo piene le carceri" e non sembravano scherzare. Rosa varcò la frontiera, con la schiena madida di sudore, neanche fosse una pericolosa terrorista. Trattarono in quel modo lei, una persona per bene, di buona famiglia, con l'unico difetto di non avere la cittadinanza americana. Iniziò a percepire come dovessero sentirsi gli extracomunitari in Italia. Entrava da straniera negli Stati Uniti d'America, che da soli nove mesi avevano subito il drammatico attacco alle Torri Gemelle. Chiunque entrava in quel paese veniva considerato un potenziale terrorista; che non sarebbero state rose e fiori, le fu chiaro in quel momento.

David intanto aveva recuperato la luce che aveva perso da qualche ora.

«Sei così affascinante che avrebbero voluto trattenerti qui... ma tu sei mia. Glielo hai detto che sei mia?»

«È la prima cosa che ho fatto» sdrammatizzò, e si precipitarono al Gate 26 sperando di non perdere la coincidenza.

Il secondo aereo partì con oltre un'ora di ritardo; forse aspettò proprio loro perché decollò non appena si sedettero ai loro posti.

David si addormentò prima che staccasse da terra. Rosa ricominciò a scrivere sul suo diario.

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