40. Nouvelle Caffè

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Rosa Smise di andare a scuola.

David accettò con entusiasmo quella sua decisione, scendendo al patto che il pomeriggio le avrebbe lasciato l'auto per poter essere libera di scorrazzare per la città dopo averlo accompagnato al lavoro. Alle undici di sera poi sarebbe tornata a prenderlo. L'unica condizione era che non vedesse più Marius, l'uomo che proprio in quei giorni leggeva davanti a tutta la classe il suo purpose, con la testa alta e il cuore in frantumi: portare la sua Rosa al mare.

Il primo giorno di quella nuova vita, David la accompagnò in un locale di Santa Monica che l'anno prima aveva frequentato con Matilde e di cui lei diventò un'assidua cliente. Una terra di mezzo tra una libreria e un bar, arredata con tavolini sghembi e sedie di ogni forma e misura, scaffali stracolmi di libri usati - alcuni ridotti a brandelli - e divanetti lisi provenienti da chissà quanti sgomberi. Sparsi qua e là per tutto il locale baluginavano i monitor dei computer, che non c'entravano nulla con quell'ambiente bohémien, ma grazie ai quali ci si poteva collegare al resto del mondo.

Il Nouvelle Caffè era il posto che faceva per lei: disordinato, impolverato, con confortevoli zone in ombra e una luce proveniente dalle lampade da lettura sempre accese, quindi mai eccessiva. Si poteva pensare in pace, laggiù. Per questo Rosa ci trascorreva quasi tutti i pomeriggi dopo aver lasciato David a Malibu; a volte si fermava anche a cena, quando aveva così poco appetito che anche un'insalata di pollo le sarebbe bastata. Altre volte cenava con una fetta di torta e un frappuccino al vicino Starbucks. Di fast food come McDonald's & co. non ne poteva più.

Dopo aver cenato e fumato le sue solite tre o quattro sigarette, tornava sempre lì. Si metteva a scrivere o leggere o al prezzo di un dollaro ogni dieci minuti accedeva a internet e si dedicava al suo blog. Spesso accanto a lei c'era qualcuno che dipingeva, qualcuno che ricamava, qualcun altro leggeva. Qualcuno dormiva sopra uno di quei comodi, logori divani. Qualche volta le capitò di addormentarsi, soprattutto nei pomeriggi più desolati, in cui perfino il barman si dimenticava di lei. Ogni tanto ripensava a Marius, ma associava ancora quel volto buono alla violenza subita. Era successo tutto da così poco tempo.

Il venerdì sera era un momento che aspettava sempre con ansia. Al Nouvelle caffè arrivava un chitarrista che suonava i suoi bellissimi pezzi dal vivo. Quella musica era la sua unica, vera gioia settimanale. Si lasciava cullare da quelle note, ogni tanto ballava con uno sconosciuto. Si concedeva un bicchiere di vino rosso che pagava più della cena, e volava. Ogni venerdì sera andava via felice, percorreva Ocean Avenue in direzione di Malibu cantando 'Hotel California' e quando passava accanto all'Hotel che portava quel nome, lo salutava nostalgica. Un giorno avrebbe rimpianto quella terra, che stava imparando ad amare con tanta fatica. Le sarebbe mancata la sua giovinezza che sentiva sfuggirle via, la musica country-rock del chitarrista, così diversa dalle canzoni italiane con cui era cresciuta. Sentiva già la malinconia, l'amore per una terra che non era sua ma che l'aveva accolta come una madre e le aveva donato il profumo segreto della libertà.

Ogni venerdì sera David notava un insolito scintillio nei suoi occhi, una gioiosa inquietudine indipendente da lui, ma aveva giurato di non chiederle niente. Era rimasta con lui, e non lo aveva nemmeno denunciato. Anche solo per questo si sentì debitore. In uno stato come quello della California, per una violenza domestica l'avrebbero sbattuto in galera per almeno sei mesi per poi rimpatriarlo non appena avesse messo il muso fuori dalla cella. Quella donna era stata la sua salvezza. Per ringraziarla, le aveva mostrato il suo vecchio rifugio. Quel Nouvelle Caffè che ormai né lui né i suoi amici frequentavano più, ma dove un animo semplice come quello di Rosa avrebbe annegato i momenti di peggior sconforto; un angolino di mondo in cui avrebbe ritrovato se stessa, scritto e rassicurato i suoi amici – sì, sì, va tutto bene - e mentito; scritto a se stessa, sul suo diario, e detto la verità.

Proprio lì, in quella zona franca della sua vita, in quel limbo desolato, Rosa ebbe le prime idee sul romanzo, il suo purpose. Avrebbe potuto narrare la storia fantastica dei suoi nani immaginari, o di Marius che sapeva leggere nel futuro. Eppure un'idea dominava su tutto: la storia di una persona che non conosceva. Un uomo gentile, della sua età. Se si concentrava, riusciva a vederlo: portava i capelli lunghi fino alle spalle e... suonava. Suonava il più nobile degli strumenti e con esso guariva i malati di spirito come lei, come David. Un violinista in pace con se stesso che attraverso la sua arte avrebbe trasmesso la quiete alla donna amata. Solo un personaggio simile l'avrebbe salvata dal mondo distopico in cui era finita, ambientazione inevitabile della sua storia.

Ogni tanto si chiedeva da dove le provenisse una simile idea. Non solo quella del violinista gentile, che a occhio e croce languiva di un tema piuttosto banale. Più che altro si chiedeva come potesse venirle in mente di scrivere qualcosa che andasse oltre un semplice diario o una poesia. Le mancavano le basi. Nessuno le aveva mai insegnato a scrivere romanzi e non aveva studiato lettere.

Si spingeva qualche volta a buttare giù un incipit, ma presa dallo sconforto tornava subito a parlare con se stessa nel suo diario.


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