28. Dal Canada con amore

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Il giorno in cui arrivarono i canadesi, David iniziò a lavorare. Era stato preso in prova in un ristorante italiano a Malibu tramite alcune conoscenze di Matilde. Parlava molto bene l'inglese, era un bel ragazzo, fu davvero singolare quell'attesa prima di trovare un lavoro. Soprattutto fu poco chiaro il motivo per cui Matilde avesse interceduto per lui; di sicuro non aveva ancora capito con quale delle tante Rose del mondo se la spassasse il suo ex fidanzato.

Quando David le illustrò gli orari che gli sarebbero toccati, Rosa iniziò a sentirsi sola. Se avesse deciso di iniziare la scuola, non si sarebbero più visti.

Trascorsero il mattino ciondolando per casa, senza quasi rivolgersi la parola. David si rase con precisione, scelse il suo abito migliore pavoneggiandosi tra uno specchio e l'altro con sguardi e ammiccamenti grotteschi. Si fermò giusto per mangiare l'insalata al tonno che Rosa aveva preparato per pranzo, senza sforzarsi di andare oltre a un 'grazie'. Lei non aveva fatto altro che camminargli dietro come un cagnolino che sta per essere lasciato a casa dal suo padrone, tormentandosi al pensiero di salutarlo alle quattro di quel pomeriggio per rivederlo il mattino dopo, sempre che non decidesse di frequentare la scuola di inglese. Perché le lezioni iniziavano alle nove e a quel punto non sarebbero nemmeno riusciti a dirsi buongiorno. Quella sarebbe potuta diventare la loro routine di coppia, ed era la cosa che più la preoccupava.

Alle quattro in punto David, che non desiderava altro da quando avevano messo piede a Los Angeles, andò via con l'auto acquistata qualche giorno prima con i risparmi di Rosa. Una Suzuki Samurai del 1988, che nonostante gli anni faceva ancora la sua bella figura, e che loro chiamavano 'cavallina'.

Lei trascorse l'intera giornata a casa, senza riuscire nemmeno a lavarsi, accasciata sulla poltrona di Paul, stravolta dalla mestizia, con lo sguardo perso nel vuoto. Sembrava che il tempo avesse ricevuto un'ineluttabile battuta d'arresto. Non passava e non passava.

Nonostante i tristi episodi di quei giorni, David le mancava. Se si trovava in un luogo tanto lontano da casa e da ogni suo affetto, era per amor suo. Avrebbe voluto chiamare sua madre, ma quando lì era pomeriggio inoltrato a Milano era piena notte. Era davvero destinata alla solitudine, lei che non era mai stata sola in tutta la sua vita.

Nel tardo pomeriggio, come preannunciato da Paul che li aveva avvisati il giorno prima dal Colorado, arrivarono i canadesi. Lei e David si erano illusi che non arrivassero più, ma quel giorno Rosa se li trovò davanti, in ritardo di una settimana ma alle sei in punto. Grace era un'elegante quarantenne dall'aria aristocratica, con i boccoli neri e il nasino all'insù. John, che dimostrava qualche anno più della sua compagna, era un bell'uomo brizzolato, galante e indossava un magnifico abito di Armani. Sembravano usciti da un film. D'altra parte si trovava a Hollywood, avrebbe potuto aspettarselo.

Rosa li accolse senza troppe cerimonie, si scusò per il pessimo inglese e si dileguò in camera sua. Avrebbe aspettato lì David. Tirò fuori il Murakami che si trascinava da qualche tempo, senza comprendere una sola parola di ciò che leggeva. Riusciva solo a piangere e fumare.

A un tratto squillò il telefono di casa. Avrebbe preferito fingere di non sentirlo, ma poteva essere Paul o sua madre; non ebbe la forza di esimersi. David si era impossessato anche del telefonino che avevano acquistato insieme, per cui l'apparecchio di Paul era il suo unico collegamento con il mondo.

Corse in cucina scalza, con il leggero abbigliamento che indossava in camera sua, sperando di non incontrare i nuovi arrivati. Purtroppo li trovò seduti al tavolo che sorseggiavano un Mojito. Grace la squadrò con disprezzo, John invece le sorrise compiaciuto.

«Hello» rispose al telefono con un filo di voce, tradendo l'imbarazzo di trovarsi davanti a due sconosciuti con una canottiera trasparente e i boxer di David.

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