33. Nikita e Capone

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Qualche giorno più tardi, David andò a scuola con Rosa. Fece il test d'ingresso e venne inserito nella classe con il livello più alto. Rosa trasse un sospiro di sollievo. Sebbene avvertisse una certa malinconia nel vederlo sempre più di rado, la scuola era la sua isola felice. Il suo momento per sé.

Marius la guardava dall'angolo più remoto della classe, o almeno questo le sembrava di percepire. Forse lo sperava e basta, ma quegli occhi posati su di lei, la facevano sentire al sicuro. Un po' come uno sguardo paterno.

"Ci sono qui io, non temere", le dicevano quegli occhi sconosciuti e buoni.

La lezione di quel giorno si intitolava: 'What is your purpose?' Lo scopo della propria vita, qual era? Si portò a casa il quesito, e ci pensò tutto il giorno. Quando David uscì per andare a lavorare, lo salutò rimanendo assorta nei suoi pensieri. Poi andò a West Hollywood a trovare Paul, che il giorno prima l'aveva invitata a bere un tè.

The purpose, rimuginava, what is the mine?

Senza accorgersene, dopo tre mesi a Los Angeles, iniziava a pensare in inglese. Iniziava a sentirsi a casa.

Arrivò da Paul a metà pomeriggio. Trovò la porta come sempre aperta. Il solito biglietto sul frigorifero giustificava la sua assenza. Quel giorno sul tavolo c'era un mazzolino di fiori.

For you, darling.

Da qualche tempo aveva iniziato a rispondere a quei bigliettini, aggiornandolo sui suoi progressi, certa di renderlo felice. Era davvero una persona stupenda. La sua presenza era tangibile benché non lo si incontrasse quasi mai.

Quel giorno non aveva nulla da fare, se non pensare al suo purpose, così trascorse lì la serata, anche se Paul le aveva annunciato che non sarebbe rientrato.

Fu una sera strana, la casa vuota e lei con quella domanda grande come una stupefacente luna piena. Pensava e vagava scalza per quelle stanze, che riconosceva come sue. D'un tratto avvertì una presenza; pensò ai nani, poi sorrise. Abbassò lo sguardo, più in giù rispetto al metro e venti dei suoi amici di marmo, e notò due esserini scodinzolanti: un carlino nero e un chihuahua.

«E voi, da dove sbucate?» sorrise.

Si sedette per terra, li coccolò. Erano due bellissimi cani di razza; ricordò di averli visti passeggiare davanti casa altre volte, ma non erano mai stati tanto sfacciati da spingersi a entrare. I padroni li lasciavano liberi di scorazzare per West Hollywood.

«Cagnolini fortunati» disse arruffando loro il pelo.

Lesse la targhetta che portavano al collo: «Nikita, è così che ti chiami?» domandò al chihuahua.

Nikita rispose scodinzolando.

«E tu sei...» esclamò con finto timore «Capone! Niente popò di meno...»

Iniziavano a esserle simpatici questi americani.

Paul che sprigionava generosità da tutti i pori, che senza volere nulla in cambio aveva messo la sua casa a loro disposizione. La scuola ebraica che le permetteva di fare passi da gigante nella conoscenza dell'inglese, alla cifra simbolica di un dollaro. E non solo; le offriva ottimi spunti di riflessione sulla propria vita. E poi, i padroni di quei due cani, domestici e liberi allo stesso tempo.

Offrì due pezzi del sandwich con cui stava cenando ai suoi nuovi amici, che in tutta riposta annusarono titubanti e abbandonarono per terra, sdegnati.

«Siete proprio viziati voi due, eh?»

Loro, offesi da quella sua miserabile offerta, le voltarono le spalle e presero a balzelli la via di casa. Rosa li seguì con lo sguardo, vide che si dirigevano verso la villa più maestosa di West Hollywood.

«La prossima volta portatemi qualcosa voi!» disse ad alta voce. «Del caviale, magari» mormorò.

Mise un pentolino d'acqua sul fuoco, meditando su quanto fosse più agiata la vita di quei due cagnolini rispetto alla propria. Avrebbe mandato giù ciò che restava del suo sandwich con l'ottimo tè cinese di Paul.

Ma il purpose?

Questa era la faccenda principale. Qual era lo scopo della sua vita? Possibile che non se lo fosse mai chiesta in ventisette anni?


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