34. The purpose

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Fu incredibile lo sconvolgimento interiore che le provocò l'ultima lezione. Quale fosse lo scopo della sua vita era una domanda che non si poneva da un paio di decenni e alla quale non sarebbe riuscita a dare una risposta in un giorno, e tantomeno in inglese.

Su quell'argomento, rifletté per diversi giorni. Era una domanda all'apparenza banale, che si era posta l'ultima volta a dieci anni quando con sua sorella decisero che lei da grande avrebbe fatto la hostess di volo e Michela la parrucchiera. Divenuta grande, aveva dimenticato un simile interrogativo. Si era lasciata trasportare da quella corrente, divenuta vortice, che era la sua vita. Aveva lasciato che gli eventi decidessero per lei. Forse per quello non si era mai sentita soddisfatta; quella non era la vita scelta da lei. Non fino alla svolta californiana. Era uscita dalle scuole medie con un livello di preparazione e un entusiasmo più consono a proseguire gli studi presso un liceo, magari artistico o psicopedagogico, ma le sue amiche scelsero ragioneria e lei si accodò. Quegli anni furono un tormento per lei che era così poco portata per le materie tecniche; si sentiva più adatta ai conti spirituali ma nessuno, sua madre compresa, avevano colto quell'inclinazione della sua personalità. Si diplomò comunque a pieni voti. Avrebbe tanto voluto frequentare una scuola di danza, si sentiva portata per l'arte, anche quella relativa al movimento, ma le amiche decisero di iscriversi a pallavolo, e nella zona in cui abitava non c'erano scuole di danza. Così si accontentò di quello sport, al quale per altro si appassionò, ma che non riuscì a tramutare in purpose per una manciata di centimetri e quarantacinque gradi di scoliosi. Non si iscrisse all'università perché dopo ragioneria le si sarebbe prospettata una temuta laurea in economia e commercio, e aveva la nausea di bilanci, stati patrimoniali e scienze delle finanze. Così decise di lasciare gli studi e iniziare a lavorare, come fecero le sue amiche. Aveva trovato lavoro da un commercialista che le fece far pratica in cambio di uno stipendio ridicolo. Dopo un anno era andata da un altro commercialista, alle medesime condizioni. Finché ebbe un posto da impiegata, e quindi uno stipendio decente, in un'azienda che produceva candele artistiche. Un posto che profumava di cera e possedeva la forma dell'arte, pieno di giovani allegri e spensierati come avrebbe voluto essere lei. Le piaceva, anche se sentiva che non avrebbe lavorato lì tutta la vita; non era certo quello il suo purpose. Ma il suo inconscio, molto più sveglio del suo lato consapevole, dopo pochi mesi l'aveva fatta ammalare di depressione, e un anno dopo era a casa, senza lavoro. Così suo padre, pur di non vederla trascorrere le sue giornate a letto, l'aveva presa a lavorare nella sua piccola azienda, ed era rimasta lì, dimentica dei sogni che non sapeva più di avere, fino a quando David non le aveva proposto una vita da favola, che portava il nome della città in cui viveva.

E ora che si trovava in quel luogo così lontano e diverso da tutto ciò che aveva conosciuto prima, ritrovò gli stessi interrogativi di quando era bambina: cosa farò da grande?

Una domanda che posta a ventisette anni, è in un penoso ritardo. Pensò a sua madre che alla sua età era già sposata e aveva tre figli. Sua madre, che non si era mai posta domande. Aveva subìto gli eventi, come accade con le disgrazie: arrivano, e non si può fare altro che accettarle cercando di non disperare.

Decise quel giorno che non avrebbe più permesso a nessuno di decidere per lei. Provò un gran sollievo. Avrebbe ascoltato i segnali della vita, la sua voce portata dal vento... non avrebbe potuto vivere senza quei consigli che le giungevano nei modi più improbabili e naturali; ma da quel momento le redini le avrebbe tenute lei.

Ponderò le cose per cui era portata, ciò che amava fare, e gliene vennero in mente due: giocare a pallavolo e...

Realizzò che tutte le riflessioni della sua vita le aveva fatte con una penna in mano; una delle sue passioni era proprio la scrittura. Aveva un diario da dodici anni, iniziato in seconda superiore, quando la ricoverarono in ospedale per il suo problema di scoliosi, per il quale fu costretta a portare un gesso per un anno e un corsetto per quattro anni. Aveva iniziato allora e non smise più.

Il suo purpose poteva essere proprio quello: avrebbe continuato a scrivere, in maniera un po' più consapevole. Pensò a un libro. Magari un romanzo ambientato a Los Angeles nel 2002...

Pur riconoscendo le difficoltà che avrebbe incontrato - non aveva studiato lettere, non sapeva come impostare un romanzo, sapeva solo che amava scrivere - decise che quello sarebbe stato lo scopo della sua vita.

A scuola sarebbe stato splendido leggere i purpose di ognuno.


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