17. La città degli angeli

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Dopo quindici, interminabili ore di volo, Rosa e David approdarono a Los Angeles.

L'aeroporto era talmente vasto che impiegarono quasi un'ora per recuperare la valigia di Rosa e uscire all'aria aperta. Quella di David si perse nel trasferimento tra un continente e l'altro e ciò causò un ulteriore addensarsi di quell'ombra che da qualche ora aleggiava sul suo volto. Gli addetti ai bagagli gli assicurarono che entro due giorni avrebbe ricevuto la sua valigia all'indirizzo di Paul, ma lui se avesse potuto li avrebbe trucidati, quei maledetti imbecilli.

«Non potevano perdere la tua?» si lasciò sfuggire indicando il macigno che lei si trascinava dietro, senza offrirsi di aiutarla o almeno di rallentare il passo. Aveva così urgenza di portarla fuori dall'aeroporto e mostrarle la maestosità della sua Los Angeles...

Appena Rosa mise piede fuori dall'aeroporto, si sentì come catapultata su un altro pianeta. Tutto era così diverso da ciò che aveva visto fino ad allora; perfino l'aria aveva una consistenza diversa, che se l'avessero incappucciata, addormentata per diciotto ore e spedita lì, al risveglio avrebbe capito di non trovarsi in Italia e nemmeno in Europa.

Nell'aria non c'era alcun odore, questa fu la prima, sconvolgente constatazione. Aveva sempre creduto che fosse impossibile in natura. Per una persona nata e cresciuta in Italia, dove l'aria profuma di fiori, di cibo, di mare oppure puzza di smog o letame, trovarsi in un posto inodore fu quantomeno strano.

In pieno contrasto con quel silenzio olfattivo la colpì, come una violenta percossa, il caos più assoluto. Nulla a che vedere con l'esterno assonnato dell'aeroporto milanese da cui erano partiti.

Rimase sbalordita di fronte a quel via vai forsennato di gente, bagagli, bus. La colpirono i taxi, per nulla eleganti e moderni come quelli a cui era abituata in Italia. Si trattava per lo più di automezzi dei primi anni ottanta, carretti tenuti in piedi per miracolo, che raccoglievano persone a palate, ognuna con la propria destinazione. Erano più minibus che taxi, dall'inquietante aspetto promiscuo e retrò.

A Rosa capitò uno dei più scalcinati e a quel punto la sua delusione fu eclatante. Si aspettava di andare in una città ultramoderna, molto più futuristica e lussuosa della sua Milano, e si ritrovò in una caotica metropoli più vicina all'idea che si era fatta del sud America.

Quel taxi, se così si poteva definire, era guidato da un fumatore incallito, con il viso consumato, stanco e grondante di sudore - perché il taxi/bus sgangherato del 1975 era sprovvisto del condizionatore - che percorreva come uno psicopatico strade fatiscenti. Un tassista che le fece venire in mente il Caronte di Dante. Si domandò a quale girone dell'inferno fosse destinata.

«Los Demones, altro che Los Angeles l'avrebbero dovuta chiamare» borbottò.

David la bruciò con lo sguardo.

Però le compagne di taxi, tutte donne, erano molto carine, curate e ben vestite. Rosa si rese subito conto che in quella città avrebbe trovato molte più contraddizioni di quante se ne sarebbe aspettata.

La loro destinazione fu l'ultima della lista: West Hollywood, a mezz'ora di distanza dall'aeroporto. Attraversarono una freeway con molte corsie ma di un asfalto più sfatto delle auto che lo tormentavano, e poi un vialone - Fairfax - orlato da casette basse e spoglie, e piccoli negozi color cemento dalle vistose insegne a neon. Trascorse l'intero viaggio cercando la meravigliosa metropoli abbarbicata sull'oceano che David le aveva osannato.

Dove sono le palme?... ah sì, eccole.

Altissime, piantate con precisione geometrica a una distanza di cinque metri l'una dall'altra, su un largo marciapiede di cui non si vedeva l'inizio né la fine.

David si sforzò di ignorare la delusione che si andava sempre più delineando sul suo volto, ma non parve riuscirci. Scese dal taxi prima di lei, senza tenerle la portiera, e si avviò alla ricerca della casa di Paul.

«Aspettami qui!» urlò lasciandola sul ciglio del marciapiede.

Rosa pagò la corsa a Caron Demonio con gli occhi di brace, e si guardò incredula intorno. Rimase impalata per qualche minuto, con il suo enorme bagaglio accanto, sul bordo di una strada a doppia corsia piuttosto trafficata divenuta collinare.

Fece un giro completo su se stessa, alla ricerca del mare.

«We...come...fornia...baby!» urlò sbracciandosi un ragazzo molto basso, forse un nano, dal terrazzo di quello che doveva essere un bar. Sull'insegna c'era scritto: Pace.

A Rosa parve qualcosa di simile a un benvenuto. Si accertò che quel saluto fosse rivolto a lei, ricambiò la cortesia sollevando una mano, ritrovando solo allora un briciolo di gioia in quel vuoto asfissiante.

Esistono demoni gentili all'inferno, si rincuorò.

David la raggiunse dopo pochi istanti, ansimando.

«È bellissima! Una casa magnifica, vieni!» proruppe entusiasta prima di ricominciare a correre nella direzione da cui era arrivato.

Rosa brandì il suo fardello di mezzo quintale e lo seguì con lo sguardo. La casa per fortuna non era distante e la strada era perfino in discesa.

In meno di cinque minuti si trovò davanti al 2380 di *** Road.

Aveva ragione David. La casa di Paul era proprio una bella villa, bianca, con una bandiera degli Stati Uniti all'ingresso - di quelle che sventolavano ovunque in quel periodo, perfino sui tetti delle automobili - e un bel terrazzo accogliente, arredato con poltroncine di vimini, cuscini bianchi e un tavolino.

La porta d'ingresso, sulla quale albeggiava un biglietto di benvenuto, sembrava un invito ai ladri. Diceva, a caratteri cubitali:

CARI AMICI, SIETE I BENVENUTI. LA PORTA NON Ѐ CHIUSA A CHIAVE. PREGO, ENTRATE.

Un secondo biglietto sul frigorifero rinnovava loro il più caloroso benvenuto, specificava quale fosse la loro stanza - cioè quella in fondo al corridoio sulla destra, proprio di fronte al suo studio - e li invitava a stappare l'ottima bottiglia di Chardonnay al centro del tavolo del soggiorno, accanto alla quale troneggiavano due calici di un impeccabile cristallo vermiglio. Lui, Paul, era fuori a cena e sarebbe rincasato a notte fonda. Si scusava per non essere riuscito a liberarsi da quell'impiccio e li salutava con affetto, augurando loro un buon riposo.

Quando misero piede in quella casa era tardo pomeriggio, ma l'orologio italiano di Rosa indicava un'alba molto prossima. Ebbe appena la forza di chiamare sua madre per rassicurarla sul viaggio e sulle proprie condizioni di salute, e si abbandonò al sospirato sonno profondo.

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