43. Nella tana del nano

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«Vado un attimo in bagno» disse all'uomo con i pantaloni calati. Come a volersi giustificare con quello sconosciuto che pretendeva qualcosa da lei. Intorno erano tutti nudi, facevano di tutto. Non aveva più dubbi; a forza di nominarlo era finita davvero all'inferno, nel girone dei lussuriosi.

Cercò i suoi vestiti tra quelli ammucchiati.

«Non c'è tempo» la esortò il nano.

La sala era così poco illuminata, che Rosa indossò i primi slip che le capitarono in mano, una camicetta bianca e corse via da lì.

Attraversarono uno dei due corridoi con le camere allineate, dalle quali fuoriuscivano lamenti e gemiti a non finire. Un profumo dolciastro misto a quello di marijuana, aleggiava nell'aria insieme alla musica soffusa. In quel momento una voce sensuale cantava in francese 'Moi Lolita'. Ripensò al capolavoro di Nabokov...

Passarono accanto a una Jacuzzi zeppa di gente; il colore di quell'acqua era nauseante, ma quelli non sembravano farci caso. D'un tratto scorse la porta di un bagno. Fece per entrarvi, avrebbe volentieri vomitato. Osservò il nano a cui era aggrappata e tornò a stupirsene. Da dove era sbucato? Le parve di riconoscerlo.

Gli occhi del nano sprigionavano un affetto incondizionato nei suoi confronti, un sentimento immeritato da parte di uno sconosciuto. Eppure c'era qualcosa in lui che le sembrava così familiare... per un attimo la sfiorò un'idea assurda.

La rifiutò.

«Andiamo via, ti prego» insisté il nano.

Rosa lo seguì barcollando. In fondo non poteva condurla in un posto peggiore di quello.

«Dove ti ho già visto?» chiese con una voce così distante che sembrava appartenere a qualcun altro.

«Seguimi» disse il nano voltandosi appena. Aveva un'andatura indecisa, la strattonava a destra e sinistra, poi ritornava sui suoi passi. Sembrava tentasse di trovare qualcosa.

D'un tratto i suoi occhi si illuminarono: vide ciò che stava cercando con tanta veemenza e la trascinò senza più esitare.

Giunsero davanti alla statua di un cane, alta poco più di un metro. Il nano si guardò intorno, accarezzò la statua e gli occhi del cane si illuminarono. Sembravano gli occhi della volpe là fuori.

Disse: «Dve tras pulè.»

La statua parve animarsi. Qualcosa si aprì tra le zampe anteriori, come una porticina. Il nano si infilò in quel pertugio e le fece segno di seguirlo.

«Sono troppo grande per entrare in quel buco!» disse stizzita.

«Non tutto è come sembra» rispose il nano, esortandola a entrare.

Rosa si contorse per oltrepassare quella porta minuscola, infilò a fatica la testa, poi riuscì a farci passare un braccio. Si allungò verso il fondo della statua, fece scivolare la spalla e trasse a sé anche l'altro braccio. Era dentro. Un vortice d'aria fredda e umida l'aveva aiutata in quell'impresa. A mano a mano che una parte del suo corpo si era avvicinata all'ingresso, la porta era sembrata dilatarsi per permetterle di passare. O era lei che si era rimpicciolita?

La piccola porta si richiuse dietro di lei con l'eco di un immenso portone. E fu buio pesto. E le parve di non esserci più.

«Dovei sei?» chiese con la voce di qualcun altro.

Il silenzio di quel luogo era totale.

«Ehi!» urlò.

Udì l'eco della propria voce, che come quello del portone non rispettava le dimensioni del luogo in cui si era rifugiata.

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