37. Gli occhi di chi ancora è vittima.

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Il giorno successivo mi presentai a scuola con la gamba dolorante. Avevo preso una gran bella botta, che oltre alla sofferenza mi aveva procurato un ematoma piuttosto esteso.

Nonostante ciò, l'infermiera mi aveva assicurato che non si trattava di niente di serio.

Il punto era che nella mia contorta testolina il problema non era affatto la gamba, ma quel ragazzo tanto arrogante.

Aveva avuto la faccia di tosta di presentarsi davanti a me e porsi con quel modo scorbutico verso Derek che gentilmente mi stava aiutando.
Tutto, dopo la ramanzina sulla troppa vicinanza.

Ma la cosa più assurda era che io non ero riuscita a placare le farfalle nello stomaco quando le sue mani calde mi avevano afferrata.

Bastava uno sfiorare di corpi per far sì che la mia pelle si trasformasse in fuoco ardente, bastava la sua voce bassa e roca per deliziare le mie orecchie come mai prima d'ora, e bastavano i suoi occhi tanto freddi per congelarmi il cuore.

Avevo paura sì, dell'effetto che aveva sul mio intero corpo.

"Kylie, vuoi una mano?" Chiese premurosamente Chloe, risvegliandomi dallo stato di trance.
"Ehm no tranquilla, credo di farcela" la rassicurai.

"Da ieri la scuola non fa altro che sparlare di voi" la guardai confusa.
"Noi?" Sbuffò.
"Tu e Caleb" mi accigliai.
"E di cosa dovrebbero parlare?"

"Dello strano modo con cui il signorino si sta comportando con te" rispose pensierosa.
"Non ha mai rivolto parola praticamente a nessuna delle ragazze della scuola, ad eccezione di sua sorella"
Mi paralizzai sul posto.

"Sua sorella?"

"È morta, in circostanze misteriose" deglutii faticosamente.
Non avevo idea che fosse successo qualcosa di simile né tantomeno che avesse una sorella.
"Quanto tempo fa?" Domandai.
"Aveva la nostra età, frequentava l'inizio della terza liceo. Per cui meno di un anno fa" annuii, provavo una strana sensazione all'altezza dello stomaco.

Avevo trovato uno dei tanti pezzi del puzzle che componevano la vita e la sofferenza che si leggeva negli occhi di Caleb.

"Dobbiamo andare in classe"

***

Quando la campanella che annunciava l'inizio della pausa pranzo suonò, la mia mente era tanto distratta che a stento se ne accorse.

Persino le voci dei professori che solitamente infastidivano le mie orecchie, mi erano giunte ovattate e confuse.

Lasciai l'aula, ma invece di dirigermi con Chloe alla mensa, presi tutt'altra strada. Avevo voglia di una boccata d'aria fresca.

Entrai nella terrazza, tramite la porta che inspiegabilmente continuava a venire lasciata aperta.

Raggiunsi il muretto, posai i gomiti su di esso, e chiusi gli occhi, con la speranza che quel vento leggero potesse portar via con se, quei così tanti pensieri che aleggiavano nella mia testa.

"Non dovresti salire così tante scale con quella gamba" sussultai, quando la sua voce penetrò le mie orecchie.

Dio, era così bella. Mi voltai.

"Che ci fai qui?" Chiesi con tono pacato.
"Tu invece?" Assottigliai lo sguardo.
"Non vale, te l'ho chiesto prima io" alzò un sopracciglio.
"Sembri una bambina" incrociai le braccia al petto.

"Ma chi si è comportato da bambino ieri sei tu! Ringrazia che ho deciso di lasciar correre" roteò gli occhi.
"Sei tu che dovresti ringraziarmi. Ti ho portato in infermeria" replicò.
"Bè, Derek mi ci avrebbe portato lo stesso" gli feci notare.
"Il coglione?"

"Ehi, non offenderlo" Scosse la testa divertito.
"È anche per questo che dovresti dirmi grazie. Ti ho portato via dalla sua patetica compagnia" Aggrottai la fronte.
"Chi ti ha detto che era patetica?" Domandai indispettita.
"La tua faccia" sbuffai.

"In realtà sei stato abbastanza maleducato" lo ammonii.
"Non ho mai detto di essere una persona educata." Rispose con ovvietà.

"Non dovevi intrometterti" Asserii seria. "Io faccio il cazzo che mi pare"

"Non dopo avermi fatta diventare pazza con i tuoi discorsi sullo stare lontano! Se lo vuoi davvero, io non sono nessuno per obiettare, smetterò di avvicinarmi, non ti cercherò e quant'altro, ma allora devi fare lo stesso anche tu!"
Non ero più riuscita a trattenermi, dovevo esplodere.

Si zittì, fissandomi così intensamente da far paura. Lo vedevo, nei suoi occhi si era scatenata una battaglia, e per me questo era già qualcosa: l'impassibilità era stata, per un attimo, messa da parte.

Dopo qualche minuto, ruppi il silenzio.

"Sono venuta qui, perché non riuscivo a non pensare a quello che ho saputo stamattina" i suoi occhi rimasero fissi sull'orizzonte.

"Sai non siamo poi così diversi" sentenziai, attirando la sua attenzione.

"Entrambi conosciamo quel dolore straziante che solo la morte di una persona amata ci può provocare.
Quello che ti spezza in due, che ti lacera pian piano, che non aspetta altro che tu anneghi al suo interno" spiegai.
"Sai, era quello che ero sul punto di fare, almeno prima di capire quanto sia importante la vita che possiedo.
Ho deciso che il destino non me lo avrebbe sottratta così come ha fatto con mia madre. Ciò non significa che il dolore svanisce, ma che ci si abitua a conviverci, a nasconderlo" presi un respiro profondo.

"Io quel dolore fresco lo vedo ogni volta che ti guardo negli occhi. È come se un filo invisibile lo conducesse da me, ed io rivivo tutto ciò che mi ha fatto male, ma con lo sguardo di chi ancora ne è vittima" dissi con un fil di voce.

"Forse è per questo che non riesco fermare la voglia che ho di starti vicino" trattenni il respiro.

"Devo andarmene" si voltò, e con passo spedito e i pugni stretti lasciò la terrazza.

Cos'avevo di sbagliato?

La tempesta che mi ha travolto.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora