50. Scavata nell'anima.

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Caleb's pov.

Tutte le cicatrici sul mio viso
raccontano la storia di chi sono
Ho camminato nel fuoco
per salvarmi la vita.
-Samuel Storm.

Se c'era qualcosa in quella vita di cui avevo realmente paura erano le conseguenze.

Con quelle non potevi lottare, per il semplice fatto che quando si realizzavano era già troppo tardi.
Lo avevo sentito sulla mia pelle, più di una volta, quanto male potevano causare.

Sapevo, ormai, che l'istinto andava tenuto a bada, che bisognava pensare prima di agire, razionalizzare il tutto, ed era proprio quella mia innaturale fermezza che spaventava tutti coloro che si imbattevano nel mio cammino.

Quei pochi che mi conoscevano, definivano tutto questo, addirittura una dote.

Eppure erano ore e ore che continuavo a pormi la stessa domanda nel tentativo di raggiungere una risposta.

Perché quella dote che tanto mi contraddistingueva, sembrava dissolversi nel niente quando si trattava di un paio di occhi azzurri ed invadenti?

Perché quando si trattava di lei l'istinto riusciva sempre ad avere la meglio?

Non lo sapevo. Non trovavo una spiegazione, neanche mentre tenevo in mano la fotografia che le avevo scattato la sera prima e la divoravo con gli occhi se come fosse stata la prima volta.

"Adesso è il turno dei ragazzi là in fondo" affermò il professore, indicando i nostri banchi. C'era stato un piccolo scambio di posti. Non volevo che quel coglione le stesse accanto.
Se la mia stima nei suoi confronti era già piuttosto bassa, dopo la serata precedente, avevo iniziato a provare per lui, nient'altro che disgusto.

"Moore, ci mostri il signor Ros" sospirai pesantemente.
"Non ho niente" l'uomo inarcò un sopracciglio.
"Non ci siamo fatti nessuna foto a vicenda" si avvicinò.
"Signori, devo ricordarvi ancora una volta di prendere seriamente queste lezioni?" Alzai gli occhi al cielo.

"Avete almeno degli scatti della signorina Bennet?" Domandò ad entrambi.
"Sì professore, o almeno io li ho" Intervenne il cazzone.
"Sì anch'io" replicai lanciandogli un'occhiata torva.
"Bene, mi faccia vedere, Ros"

Il ragazzo in questione estrasse la sua fotografia da una bustina trasparente.
Il volto sorridente di Kylie riempiva l'immagine.

Mi girai in direzione della ragazza che, imbarazzata, lasciava vagare il suo sguardo dappertutto meno che sulla foto.

Perché non ti accorgi di quanto sei bella?

"Dunque, mi dica che cosa significa per lei questa immagine" richiese il professore.

"Credo che questa foto la descrivi, descrivi la sua capacità di rendere migliori le giornate altrui, anche solo con uno dei suoi sorrisi sinceri" sentii uno strano fastidio diffondersi nel mio stomaco, ma cercai di nasconderlo, concentrandomi sul viso di Kylie, illuminato da un timido sorriso che di sincero non aveva un bel niente.

"D'accordo, passiamo al signor Moore" sospirai, non intenzionato a parlare.
"Questa foto che lei stesso ha scattato per lei non vuol dire niente? Mi parli della signorina Bennet" 
Mi raddrizzai sulla sedia, guardandolo con aria di sfida.

"Kylie Bennet, è in ognuno dei particolari, ognuna di quelle piccolezze su cui pochi si soffermano" gli occhi del soggetto in questione si incollarono al mio profilo ed il professore sembro d'improvviso incuriosito.

"Si può partire dalle mani, per esempio.
Il modo timido  con cui le dita, quasi tremanti, indugiano sulla ciocca di capelli, fanno pensare ad un sinonimo di fragilità, o paura di compiere un gesto sbagliato. Ma poi ci si concentra sul netto contrasto degli occhi magnetici che appaiono decisi, ed al tempo stesso così limpidi e trasparenti, incapaci di poter mentire"

Non ebbi il bisogno di alzare lo sguardo per capire che l'intera classe mi fissava esterrefatta. Né tantomeno per scorgere il vibrare del corpo di Kylie al mio fianco. Continuai, non riuscivo a smettere.

"Le guance sono rosate, come ogni volta che è in imbarazzo ed arrossisce più innocente di un bambino, mentre le labbra..." sfiorai con un dito la bocca ritratta nella foto.

Ricordi sbiaditi della sera precedente percossero la mia mente, e mi ritrovai a dovermi trattenere dal voltarmi e baciarla di nuovo lì , davanti a tutti.

Lo ricordavo bene, ma avrei voluto comunque ripassarlo, il sapore di quelle labbra.

"...si incurvano leggermente, nel momento in cui la spontaneità ha la meglio su ogni cosa"

Avrei voluto aggiungere che quelle sfumature rosse, erano le tracce del rossetto che indossava prima che le divorassi la bocca e che quella macchia rossa non molto evidente tra il collo e la clavicola, era un segnale forte e chiaro, per tutti i coglioni, dal primo all'ultimo, di starle lontano, ma decisi che era meglio che lo tenessi per me.

Distolsi lo sguardo dall'immagine e la guardai.
Gli occhi le luccicavano, ma la tensione era palpabile. Sembrava così contrariata.

Mi voltai verso il professore. "Complimenti Moore, la foto è molto bella e la riflessione non è da meno" affermò, mettendo da parte l'orgoglio.

Non risposi, l'attenzione di tutti era completamente rivolta verso di me ed io mi ritrovai a pensare che forse tutto ciò non era che ridicolo.

Facevo addirittura fatica a riconoscermi. Insomma, quale cazzo di malattia mi stava affliggendo?

L'insegnante passò ad un altro gruppo, evitando di controllare le foto di Kylie, troppo distratta per rendersene conto.

"Pensi davvero tutto ciò ?"
I miei occhi catturarono i suoi.
"Penso questo e molto altro"
"Nessuno è mai arrivato così a fondo" rivelò, mordicchiandosi un labbro.

"È come se tu mi scavassi l'anima ogni volta che mi guardi"

Volevo risponderle qualcosa, mentre il suo sguardo mi puntava carico di emozione, e si torturava le mani, ma le parole non mi uscivano dalla bocca.

Forse era lei, la malattia di cui tanto mi preoccupavo.

Mi alzai, ignorando tutti ed assicurandomi che il bigliettino che avevo scritto le cadesse sotto gli occhi:

Alle 21:30, davanti casa tua.

La tempesta che mi ha travolto.Onde as histórias ganham vida. Descobre agora