45. La dolcezza inaudita.

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Ci sono momenti nella vita, che difficilmente abbandonano i ricordi, momenti che si imprimono nella mente, che sporcano indelebilmente il cuore. Sono quei momenti, il cui pensiero, ti toglie il respiro.

Il 24 febbraio, alle quattro e trenta del pomeriggio, ha avuto luogo, per me uno di questi.

Diciassette, sono state le sedute psicologiche a cui sono stata sottoposta affinché il ricordo del volto ustionato di mia madre si disperdesse lentamente nelle tenebre del remoto.

Diciassette sedute affinché i miei attacchi di panico terminassero, o quanto meno diminuissero, e funzionarono, funzionarono davvero.

Ma il dottore lo ripeteva sempre:
Potranno esserci delle ricadute, soprattutto in caso di visioni legate o riconducibili all'evento.

E così è stato, aveva ragione.
Nessuno lo sapeva, ad eccezione di mio padre.

Nessuno altro, almeno fino a quel venerdì sera, quando il ragazzo che stavo osservando scendere dalla moto nera, aveva assistito ad una mia crisi.

In quella situazione così delicata, sentire il mio battito regolarizzarsi alle sue parole, e percepire i suoi occhi che seppur impauriti tentavano disperatamente di calmarmi, mi aveva aiutato a capire che quello che provavo per lui, era andato oltre i limiti delle mie aspettative.

Era diventato qualcosa di forte a tal punto da farmi vibrare il cuore, qualcosa a cui, non molto dopo, avrei dato un nome.

"Cal" lo chiamai, avvicinandomi.
Non ci eravamo ancora né visti né sentiti ed io avevo una maledettissima voglia di parlargli. Si voltò nella mia direzione, mostrando un viso dall'espressione seria ma con i lineamenti addolciti.

"Ky" accennai un sorriso, in imbarazzo. Era la seconda volta che usava quel nomignolo e mi piaceva, molto.
"Senti, mi dispiace per quello che è successo. N-non voglio che tu provi compassione per me"
Scosse la testa, con disappunto.

"Non è così, sappilo" Annuii, sorridente.
"Grazie, per quello che hai fatto" lui corrugò la fronte.
"Non ho fatto niente"

"Per me, hai fatto molto" incastrai gli occhi nei suoi, belli e tempestosi.
"E poi adesso ho avuto la conferma definitiva" Mi guardò con aria interrogativa.
"Conferma di cosa?" chiese.
"Non sei lo stronzo che vuoi far credere di essere" sentenziai, ridacchiando.

Caleb incrociò le braccia al petto, con un sopracciglio inarcato.
"Dovrò farti ricredere" scossi la testa.
"Oh no, non ce ne è bisogno"

Dopo qualche attimo, il suono della campanella interruppe la nostra breve conversazione.

"Ci vediamo quando capita, allora"
Accennai un sorriso, per mascherare la delusione. Io e lui incontravamo sempre e solo per caso.
"Ok" dissi soltanto, alzando il pollice in su. Mi stavo rendendo davvero ridicola.

Imbarazzata fino alle punte dei capelli, mi voltai, intenzionata ad andarmene, ma la sua voce mi immobilizzò.

"Tanto lo so che ti trovo lassù"
Non riuscii a trattenere un sorriso ed ero sicura che neanche lui vi fosse riuscito.

Quando mi  allontanai definitivamente, per recarmi in aula, il cuore aveva già iniziato a festeggiare come un pazzo.

***

Il mio pasto era terminato in un batter d'occhio. Chloe aveva continuato a ripetere quanto dolce fosse diventato Bret, il quale non aveva fatto altro che lamentarsi, per le numerose offese alla sua virilità. Dylan, invece, seduto allo stesso tavolo, non mi aveva rivolto la parola neanche per sbaglio.

Così, annoiata a morte, avevo inventato una banale scusa per svignarmela e raggiungere la terrazza.

Lo avevo trovato, come sempre, con gli occhi puntati verso l'orizzonte, e i gomiti sulla ringhiera.

"Non hai mangiato oggi" esordii alle sue spalle.
"Non avevo molta fame" le sue mani estrassero impacciate sigaretta e accendino dalla tasca.

"Sembri turbato" notai.
"Lo sono in realtà" si voltò nella mia direzione.
"Pensavo all'altra sera. Vederti in quel modo mi ha fatto un certo effetto" Sospirai.

"Ma stamattina..." non feci in tempo a terminare la frase.
"Hai la speciale capacità di nascondere le cose" si portò la sigaretta alla bocca.
"Che intendi?" Aspirò il tabacco.

"Nessuno saprebbe dirti cosa c'è dietro i tanti sorrisi" mi disse, sorprendendomi.

"Non è la prima volta che succede"
ammisi. "Per un periodo ho frequentato uno psicologo, mi ha aiutato molto, ma certo, alcune cose succedono lo stesso"
Le sue iridi inchiodarono le mie.

Erano il caos più totale.

"Non devi parlarne per forza"
"Nessuno mi sta obbligando" lo rassicurai.

"Otto mesi fa, la grande cucina in cui lavorava mia madre ha preso fuoco, lei era di turno ed io ero ad un tavolo ad aspettarla. Ci vollero pochi minuti prima che le fiamme si diffondessero nell'intero ristorante. Il sistema antincendio dell'edificio per qualche ragione non funzionava, e mia madre voleva a tutti i costi assicurarsi che tutti uscissero il prima possibile. Così i colleghi e i consumatori, me compresa, sono riusciti a salvarsi, e lei no. Avevano provato ad aiutarla, ma una trave le era caduta sulla gamba, immobilizzandola. I vigili del fuoco non poterono fare niente, quando arrivarono era già morta. Ogni volta che vedo le fiamme, i pompieri che accorrono, rivivo quella scena. Le mie urla, le mie suppliche, il fuoco non ancora spento, e il corpo di mia madre, steso su una barella, bruciato."

Non riuscii a trattenere le lacrime.
Lui si avvicinò e il suo braccio mi avvolse il mio collo facendo scontrare il mio corpo con il suo.

Non era mai successo, mai.

"Non voglio farti pena" Mugolai contro il suo petto, con la voce rotta.
"Smetti di pensarlo, va tutto bene" sussurrò al mio orecchio.

"Non mi piace vederti piangere, non farlo" mi scappò un sorriso.

Quel giorno avevo avuto la conferma di quanto superficiali fossero tutti coloro che semplicemente, lo chiamavano stronzo.

La tempesta che mi ha travolto.Where stories live. Discover now