Prologo

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Ventinove/Gennaio/Duemila e...

Avanzo barcollando s'una altalena di cemento.

Ho la testa leggera, i sensi confusi.
Sento il sapore dell'asfalto e l'odore della notte.
Il trip è finito, ma la scia chimica che si lascia alle spalle no. È la parte peggiore quella. Il vuoto.
Il down sistemico è come una stanza dopo una festa scatenata: c'è silenzio, spazzatura ovunque, gente che dorme nei posti e nei modi più improbabili e un senso di vomito che nemmeno ne "L'esorcista".

Arranco i passi. Faticando a metterli uno davanti all'altro.

Dovrei smettere. Il vuoto che ho dentro non si riempie, nemmeno con la roba. Ma non riesco, ormai sono intossicato fin dentro il midollo dell'anima.

Svuoto lo stomaco senza volerlo in un conato intrattenibile. Mi va di traverso. Quasi soffoco.
Rido isterico, sputo acido.
Un giorno di questi riuscirò a diventare una rockstar. No, non bello ricco e famoso. Morto, soffocato nel vomito.

Il freddo congela il fiato. Lo rende solido. Compone parole. Dice "seguimi".
Che ho da perdere? Lo seguo.

Mi porta sulla soglia di un locale. È una catapecchia. No, no, è proprio una cazzo di bettola. Una vera baracca.
Quando entro, però, mi rendo conto che le apparenze ingannano. Dentro è caldo e accogliente.
Dagli occhi entra musica ambientale in delicato sottofondo.

Ho aperto senza bussare.

Un campanellino mi ha dato un doppio benvenuto, con un ding all'apertura e uno alla chiusura.
L'aria dentro è un po' pesante. C'è fumo stratificato.

Un urlo.
Strano, scomposto.
Forse è perché ho i sensi incasinati, ma è sembrato il rutto di un angelo.
«Siamo chiusi, cazzo!»

È un bar. Una specie di pub inglese. Ha persino il bersaglio per le freccette appeso al muro. Se fuori avesse l'insegna col gallo, potrebbe esserlo per davvero un fottuto pub inglese. Solo più grezzo, più sanguigno.

Nell'ambiente aleggia anche uno strano profumo. Lo sento sulla lingua, lo assaggio. Ha una consistenza pastosa e avvolgente. Vellutata, come un gelato. Un gelato caldo al gusto di mirra.

Avanzo senza fermarmi, con l'equilibrio di un guercio cui hanno rubato il bastone.
Raggiungo il bancone e mi siedo, abbandonando le membra su di uno sgabello metallico, comodo come il letto di un fachiro.

Guardo in basso una macchia sul top. Cerco di pulirla. Strofino a fondo ma non viene via. Guardo meglio: è un nodo d'albero. Risolino etilico.

Alzo lo sguardo davanti a me.
Pelle, tanta. Torace, color dell'ambra. Un seno pazzesco, che sembra esplodere in una camicia a quadroni da boscaiolo. Feltro, stretta e annodata sulla pancia. Le maniche arrotolate fino al gomito.
Spero l'ascia l'abbia dimenticata a casa...

Continuo la mia salita.
Mento. Labbra piene e rosse, senza trucco e senza inganni, coricate una sull'altra a fare l'amore sull'orizzonte.
Un piccolo spacco sotto il labbro inferiore, una fossetta marcata frutto di un gene sicuramente dominante.
Particolare.

Salgo più su.
Naso. Occhi, due che guardano per quattro. Neri, nero fuoco. Come cazzo fa a essere nero, il fuoco? Non lo so, ma loro sono una brace accesa. Incandescenza penetrante. Mi attraversano, si tuffano nei miei, così a fondo che mi sembra stiano curiosando nell'oscurità in cui risiedono i miei demoni.
Mi tagliano l'anima di traverso. Fanno un male cane, ma non posso sottrarmi. Non riesco a infrangerla questa folle necessità di fissarla.

Smette di lavare bicchieri e stoviglie.
S'avvicina, riducendo a un paio di spanne la distanza tra noi.
Si appoggia s'un pugno, spingendolo contro il top, come volesse crearci un cratere. Sembra un serpente che s'attorciglia su se stesso.
Gocce d'acqua le colano dagli avambracci e lungo i polsi, dirette sul bancone. La bava di quel serpente famelico.

Come un lampo, solleva un coltellaccio da cucina e lo pianta nel bancone, pericolosamente vicino alla mia mano destra. Quella che cercava di cancellare il nodo del legno.
Stringe lo sguardo, affilandolo più della lama che mantiene in verticale sul bancone. La stretta attorno al manico è tale da sbiancarle nocche e dita.

Soffia fuori una frase, breve. Poche parole, dal vago sentore di minaccia.
«Che cazzo hai da guardare?»

Ancora quella distonia tra suono e parole. Sì, sì: è proprio il rutto di un angelo!
Ma io ho talmente tanta roba in corpo che se mi mordesse un cobra si metterebbe dritto sulle zampe che non ha, a belare. Vedere quel coltello, piantato così, non mi provoca alcuna emozione.

La paura è la prima cosa che sparisce dopo una dose.
La seconda è la tristezza.
La terza è la felicità.
La quarta è il calore.
L'ultima è la luce.

E io sono già alla quarta...

Mi ricresce spontanea quell'esilarante gramigna falso etilica sul viso.
Indico il coltello con un lieve movimento laterale della testa.
«Che altro sai fare con quello?»

Rido ancora.
Rispondo a tono.
Riduco l'altezza da cui mi guarda.
«Lo sai affettare un cazzo di lime per un mojito?»

Indietreggia, alzando un sopracciglio. Mi risponde sprezzante, ma ridendo.
«Dove cazzo credi di essere? Sulla spiaggia dell'Avana?»

Non so come, né perché, ma quella frase mi pesca dalla bocca parole non pensate. Una luce dall'ombra, una lucciola partorita da una notte senza stelle. È un parto spontaneo, senza dolore. Provo gioia e non capisco perché.
«No? Eppure mi sembrava di avere il sole davanti...»

La guardo senza pensieri. Non so che volevo dire con quella frase. Nella testa ho uno zabaione impazzito di sensazioni, nella bocca una festa in cui vomitano tutti.

Un mojito non guasterebbe, a pensarci meglio...

Lo sguardo della barista cambia. S'addolcisce.
Prende due bicchieri da shot e li riempie, usando una bottiglia d'importazione. Sbrodola fuori una parte di quello scrosciare, senza impensierirsi per il bancone. E per lo spreco.

Alza il suo.
Alzo il mio.

Parla per prima.
«Io sono Zahira»

Che nome...
Un nome bellissimo.
Un nome brillante.
Un nome da stella.

Rispondo, secco.
«Gio»

Sorride sorpresa.
«Solo Gio?»

Ricambio il sorriso.
Questa volta sincero, come non lo sono mai stato in vita mia.

«Sì, solo Gio!»

La Frattura [Completa - In perpetua revisione]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora